ORIGINI E PRIMI SPLENDORI
è
convenzione far risalire la nascita ufficiale del cinema a sabato 28 dicembre
1895, quando i fratelli Louis e Auguste Lumière organizzarono, al Gran
Café di boulevard des Capucines, a Parigi, proiettando La sortie des
usines in cui si vedeva l'uscita degli operai da una fabbrica, la prima
rappresentazione a pagamento dei risultati ottenuti dall'invenzione che avevano
provveduto a brevettare nel febbraio precedente: il Cinématographe
Lumière. Si trattava di un'apposita macchina in grado di fissare e
proiettare su di uno schermo una serie di immagini in movimento. I fratelli
Lumière avevano condotto al risultato finale una ricerca durata secoli e
secoli: dalla lanterna magica, già nota ai Romani (se ne sono trovate
tracce negli scavi di Ercolano) al Kinetoscope inventato dallo statunitense
Thomas Alva Edison, geniale pioniere del fonografo e del telegrafo, quattro anni
avanti. Alla base della cinematografia sta il principio fisico, teorizzato
scientificamente da Newton, della persistenza sulla retina delle immagini per
una frazione di tempo che è di circa un decimo di secondo. Ne consegue
che, facendo passare una serie di almeno dieci fotografie (fotogrammi) al
secondo, si ottiene da parte dello spettatore la percezione di un movimento
continuo. Per il loro cinema, i Lumière usarono un ritmo di quindici
fotogrammi al secondo, onde evitare il rischio di immagini a scatti. Nel suo
Kinetoscope, per contro, Edison aveva usato un ritmo di oltre quaranta
fotogrammi al secondo; ma, nonostante la sua smagliante intelligenza tecnica
(definì, ad esempio, la qualità e il formato della pellicola in
celluloide forata ai due lati come quella odierna), sul ritmo di proiezione
Edison era lontano dal centrare il problema. Il cinema muto si è
assestato sui sedici fotogrammi al secondo; quello sonoro sui ventiquattro. La
nuova forma di spettacolo incontrò un successo travolgente. Dapprima fu
ospitata in baracche, sotto i tendoni o in vecchi locali dismessi; presto
nacquero strutture viaggianti che battevano fiere e luna-park, con una capienza
anche di mille posti. Agli albori del secolo comparve qualche struttura fissa
sistemata per lo più in ex teatri; ma la spinta determinante
all'affermarsi del cinema la dettero, in USA, i cosiddetti Nickelodeons, salette
di proiezione aperte dalle 8 del mattino a mezzanotte, il cui biglietto costava
un nickel, 5 centesimi di dollaro. Alla loro gestione provvidero molti dei
futuri magnati di Hollywood. Il primo fu aperto a Pittsburgh, nel 1905, da
Adolph Zukor che diventerà il boss della Paramount; altri ne installarono
Carl Laemmle, fondatore dell'Universal, William Fox, Marcus Loew, padrone della
Metro, e i fratelli Warner. Nel 1910, i Nickelodeons erano più di
ventimila in tutti gli Stati Uniti e rendevano cifre enormi. Vi venivano
proiettate serie di film da una bobina (intorno ai 300 metri), in linea con la
produzione dei primordi. Il tramonto dei cinemini da un nickel fu conseguenza
del graduale passaggio dal corto al lungometraggio. Del resto, già nel
1913, un palace cinematografico capace di tremila posti sorse a far concorrenza
ai teatri della Broadway.
Il successo del fenomeno cinematografico pose
quasi immediatamente l'esigenza del suo sfruttamento commerciale con la
realizzazione di film che alimentassero l'aspettativa del pubblico. I pionieri
del nuovo mezzo espressivo furono perciò anche registi e, soprattutto,
produttori. Cominciando da Louis Lumière (1864-1948) che diresse una
quarantina di film e ne produsse circa 1500, mentre il fratello Auguste aveva
scelto la strada degli studi di biologia. Lo stile di Lumière era
rigorosamente realistico-documentario. I suoi operatori riprendevano dal vero
avvenimenti di spicco, calamità naturali, ricorrenze ufficiali,
festeggiamenti, ecc. Non esistevano soggetti di fantasia né attori.
Soltanto negli ultimi anni Lumière ricorse a scenette comiche,
attualità «ricostruite», film a soggetto d'argomento storico e
religioso (La vita e la passione di Gesù). Il suo contraltare diretto fu
Georges Méliès (1861-1938), audace vessillifero del cinema
fantastico in cui riversò tutti i trucchi coltivati nella antecedente
carriera di illusionista da palcoscenico. Il suo film più famoso è
Viaggio sulla luna (1902) che è anche il più rappresentativo della
sua inventiva magicamente fantasmagorica. Méliès aprì e
attrezzò per le riprese un teatro di posa a Monteuil, si servì di
soggetti scritti, di attori, specialmente di stupefacenti marchingegni tecnici.
Usò anche il colore impiegando alcune centinaia di ragazze che
tinteggiavano a mano ciascun fotogramma. Le sue creazioni arricchirono
enormemente il potenziale espressivo del cinema. Intuì alcuni fondamenti
della grammatica cinematografica (primi piani, dissolvenze incrociate,
sovrimpressione movimenti di macchina), anche se non arrivò a pensare una
sintassi. Le sue vedute sono sempre frontali, con lo stesso punto di vista come
a teatro, serie di quadri in successione uniforme e non variamente legati tra
loro dal montaggio. Con la prima guerra mondiale, Méliès
subì un rovescio economico che lo costrinse al ritiro, soppiantato dalle
produzioni Pathé (che controllava anche la distribuzione) e Gaumont (che
controllava i circuiti delle sale).
Singolare figura di industriale attento
alle ragioni dell'arte fu Léon Gaumont (1864-1946). Nel suo vasto teatro
di posa ricorse per le scenografie all'apporto di Menessier, uno dei più
affermati pittori della Parigi tra i due secoli, e dette l'avvio ad una
più moderna soluzione del problema-colore utilizzando la sovrimpressione
di tre riprese della stessa scena con filtri diversamente colorati. La sua
principale invenzione fu il Cronophone, cioè un procedimento di
armonizzazione a posteriori delle scene girate con i dischi contenenti le
relative parole o musiche: quasi un'anticipazione del doppiaggio. Gaumont non
mancò di servirsi di registi di talento, come Louis Feuillade,
realizzatore del primo serial d'argomento poliziesco, incentrato sul personaggio
di Fantomas (1913-14). Negli anni della guerra lavorarono per la sua industria
multinazionale (oltre 50 affiliati nel mondo) i giovani Marcel L'Herbier e
Jacques Feyder.
Tuttavia, l'autentico magnate del cinema nascente, colui
che lo trasformò da attività artigianale in grande industria, fu
Charles Pathé (1863-1957): famoso anche per l'invenzione di una cinepresa
a passo ridotto, 16 mm invece dei 35 abituali. A lui si deve la creazione di
un'industria a ciclo verticale: dalla costruzione degli strumenti tecnici alla
produzione e distribuzione dei film. Vi fu anche il coinvolgimento del mondo
finanziario con strategie internazionali di alleanze e partecipazioni incrociate
di capitali. Dominatore incontrastato su tutti i mercati europei, allargò
agli USA la sua attività in un'altalena di guerre e di collaborazioni con
il colosso delle produzioni Edison, di cui fece proprie le scelte spettacolari
(i serial di Pearl White, ad esempio) e i procedimenti pubblicitari. I film
della Pathé toccano tutti i generi e debbono il loro successo al fiuto
sicuro di un cineasta come Ferdinand Zecca per decenni a capo della produzione.
La società aveva creato marchi autonomi in Olanda, Germania, Inghilterra,
Russia, Italia e, infine, negli Stati Uniti. Le sue fortune durarono fino
all'avvento del sonoro quando, in seguito ad una grave crisi, dovette cedere i
suoi film alla RKO di Joseph Kennedy. Ma, nel frattempo, si era assicurata la
distribuzione delle comiche di Harold Lloyd e di quelle di Mack Sennett. Del
resto, proprio grazie ad un comico, Max Linder, la Pathé aveva sfondato
sui mercati d'oltre Atlantico.
Alla casa di produzione voluta da Edison si
deve il legame tra il cinema delle origini e i fasti hollywoodiani, con il
contributo intermedio, particolarmente negli anni della guerra, della Triangle:
un fortunato esperimento produttivo che vedeva coinvolti tre cineasti del
calibro di David W. Griffith, Thomas Ince e Mack Sennett. Fu nell'ambito della
produzione Edison che Edwin S. Porter poté articolare una prima sintassi,
fondata sul montaggio, della narrazione cinematografica in La grande rapina al
treno (1903) considerato altresì il capostipite del genere western.
Contemporaneamente, con La capanna dello zio Tom, che era lungo 335 metri ed
esibiva una realizzazione molto costosa, la Edison aprì la strada verso
il lungometraggio e lo stile kolossal. Entrambi, tuttavia, conobbero in Italia,
e in maniera intrecciata tra loro, la prima fioritura e il primo autentico
successo internazionale. Il cosiddetto «film lungo», infatti,
richiedeva grandiosità e sontuosità di veduta e ne sfruttava al
meglio le implicazioni economico-spettacolari.
Il lungometraggio
«colossale» italiano fu essenzialmente storico, coltivato da case di
produzione come l'Ambrosio, l'Italia, la Gloria a Torino (allora autentica
capitale italiana del cinema), la Cines, la Celio e la Caesar, a Roma, e la
Milano film. Grandiosità scenografiche, largo impiego delle masse,
interpreti tolti dal teatro, gigantismo spettacolare, accesa drammaticità
popolare, contrassegnarono il nuovo gusto, consegnato a film come Inferno (da
Dante), Gli ultimi giorni di Pompei, Quo vadis? e, specialmente, Cabiria (1914)
che segnò il trionfo del regista-produttore Giovanni Pastrone, dalle cui
invenzioni cinematografiche pare sia stato influenzato anche Griffith. In
Cabiria, Pastrone lanciò il personaggio del gigante buono Maciste (l'ex
portuale genovese Bartolomeo Pagano) che diventerà protagonista di una
serie di generose avventure protrattesi fino all'avvento del sonoro. Inoltre,
per 100 mila lire, ottenne l'imprimatur di D'Annunzio alle didascalie del film
da lui stesso scritte nello stile del Vate.
Altri generi alimentarono quel
periodo felice del cinema italiano che entrerà in crisi, dopo il 1919,
insieme alle illusioni delle principali case di produzione consorziatesi,
sull'esempio straniero, nell'Unione Cinematografica Italiana, senza essere in
grado di reggere la concorrenza dei trust statunitensi. Gli avvenimenti politici
interni contribuirono a relegare nell'ombra il film nazionale: nei primi anni
del fascismo l'industria italiana non riesce a produrre più di una
dozzina di titoli l'anno, lontani, del resto, anche come qualità dalle
opere del filone verista: Sperduti nel buio (1914) e Teresa Raquin (1915), di
Nino Martoglio, derivati da Bracco e Zola, e Assunta Spina, da Salvatore Di
Giacomo, diretto da Gustavo Serena e interpretato da Francesca Bertini. Il
ricorso a celebri opere letterarie e/o teatrali era d'obbligo; qui, l'apice fu
toccato da L'histoire d'un Pierrot, portato sullo schermo nel 1913 da
Baldassarre Negroni con un cast di tutto rispetto: la Bertini, Leda Gys, Emilio
Ghione. Prende piede, frattanto, il fenomeno del divismo che coinvolge, oltre ai
citati, attori come Lyda Borelli, Italia Almirante Manzini, Giovanni Grasso,
Alberto Collo, Mario Bonnard, Pina Menichelli, Tullio Carminati, Maria Jacobini
e, nella farsa, Cretinetti (il comico francese André Deed). Ghione
è interprete, fra il 1917 e il 1918, di un popolarissimo serial nero
centrato sul romantico personaggio di Za la Mort. E si affermano registi di
sicuro talento: Pastrone, Negroni, Lucio d'Ambra, Mario Caserini, Augusto
Genina, Carmine Gallone. Gli ultimi tre, dopo le guerre e la crisi, troveranno
spazi idonei alla loro professionalità sui set di Parigi e
Berlino.
GRIFFITH
Diversi storici hanno scritto essere stato
David Wark Griffith l'autentico inventore del cinematografo. Affermazione, di
per sé, eccessiva, ma non priva di una sua sostanziosa fondatezza.
Griffith, infatti, non è letteralmente l'inventore del cinema, ma
è sicuramente l'autore che dette al nuovo mezzo espressivo dignità
artistica, togliendolo dal clima corrivo dei luna-park e dei Nickelodeons e
ponendolo in una collocazione più spiccatamente culturale. Figlio di un
generale, appartenente ad una distinta famiglia del Kentuky, Griffith
(1875-1948) portò nel mondo in celluloide una buona educazione borghese e
aspirò sempre a fare del cinema uno strumento di espressione e di
riflessione, al pari del teatro e della letteratura. Fu il primo che
utilizzò sistematicamente per lo schermo famose opere letterarie e il
primo trascrittore cinematografico di un testo shakespeariano (La bisbetica
domata, 1908). Fu anche il regista che seppe organizzare in un sistema armonico
tutte quelle invenzioni che arricchirono il giovane linguaggio cinematografico.
Si dice che Griffith abbia inventato il primo piano, il campo lungo,
l'illuminazione psicologica, ecc. Probabilmente egli si limitò ad usare
questi elementi con maggior consapevolezza espressiva dei suoi colleghi.
Certamente, inventò il montaggio che fu detto alla Griffith: l'alternanza
narrativa di rapidi segmenti di due azioni diverse, divenuta canonica nei finali
dei film western (e riassunta nel detto popolare di: - Arrivano i nostri! -) con
i soccorritori che sopraggiungono in extremis a salvare l'eroe (più
spesso, l'eroina) nei pasticci.
Produttore e regista dai progetti geniali,
Griffith guadagnò e perse milioni di dollari, preferendo spesso la
condizione di indipendente ai rapporti con le case di produzione. I film sulla
storia americana e i colossi d'argomento biblico (Judith di Betsabea è il
più famoso) furono i suoi preferiti ed entrambi i generi confluiscono
nelle sue due superrealizzazioni, Nascita di una Nazione e
Intolerance.
Nascita di una Nazione (1914) è preparata, due anni
avanti, da un film minore, The battle, sulla guerra di secessione. F. un
poderoso affresco storico sui dieci anni cruciali della vita degli Stati Uniti,
dallo scoppio della guerra civile alla riorganizzazione del Sud vinto, visti
attraverso i rapporti che coinvolgono due famiglie (Selznick, pensando a Via col
vento, si ricordò molto di Griffith). Grosso successo commerciale,
Nascita di una Nazione scivolò sul problema negro poiché il
regista parve compiacere troppo la sua origine sudista nel presentare le
incappucciate vendette del Ku Klux Klan, che si avvicendano nel film al ritmo di
un filo musicale alternato sui temi della cavalcata delle Valchirie e di
Dixie.
Il successivo Intolerance (1916) è una sdegnata requisitoria
contro l'intolleranza delle idee altrui, svolta in quattro episodi: a Babilonia,
sul Golgota, nella Francia della notte di San Bartolomeo e durante la
repressione sanguinosa di uno sciopero negli Stati Uniti d'oggi. Nonostante la
fastosa complessità della messa in scena, il film disorientò il
pubblico statunitense non ancora abituato a ritrovare sullo schermo spunti
ideologici e temi di discussioni. Legato dal leit motiv di una madre che dondola
una culla, con riferimento ad un verso di Walt Whitman, Intolerance non riscosse
un successo popolare e costò al suo autore un deficit di un milione di
dollari: l'esatta metà di quanto era costato. Griffith vi aveva profuso
le sue migliori energie e, in seguito, firmò soltanto produzioni meno
azzardate. Anche se, in alcune di esse, riuscì a ritrovare tutta la sua
genialità di autore: Cuori del mondo (1917), Giglio infranto (1919),
America (1924); specialmente, Isn't Life Wonderful? sulla miseria nella Germania
del primo dopoguerra, e, già sonoro, Il cavaliere della libertà
(1930), biografia di Abramo Lincoln. Ma il sonoro non gli portò fortuna;
sottolineò, anzi, irreparabilmente, la sua condizione, in qualche modo,
di sopravvissuto. L'ultimo film di Griffith, The Struggle (1932) sul problema
dell'alcolismo non fu mai distribuito.
DAL MUTO AL SONORO
Nel 1919, in URSS, Lenin nazionalizza
l'industria cinematografica determinando una svolta nelle sorti di una
produzione che, nell'anteguerra, si era limitata a portare sullo schermo i
capolavori della letteratura nazionale mentre negli anni del conflitto e della
rivoluzione era rimasta ferma a poche realizzazioni di propaganda. Come
nell'ambito della poesia, il cinema sovietico fa registrare una confluenza tra
le poetiche dell'avanguardia e l'ideologia rivoluzionaria. Dziga Vertov,
Kulesov, Protazonov sono i maestri di una nuova generazione di cineasti le cui
opere si imporranno all'attenzione internazionale, unitamente alle loro
enunciazioni teoriche, con sensibili conseguenze sull'evoluzione del linguaggio
filmico. Ejzenstejn (1898-1948) proviene dal teatro e dalle teorie futuriste; ma
fin dall'esordio cinematografico (Sciopero, 1924) si mostra totalmente calato
nella nuova realtà sovietica. Il suo primo capolavoro (La corazzata
Potëmkin, 1925) rivela uno straordinario talento narrativo e figurativo. La
coralità e la matematica scansione espressiva di Ejzenstejn trovò
riscontro nella sottile sensibilità lirica e psicologica di Vsevolod
Pudovkin (1893-1953) che dette il meglio di sé in quattro opere
realizzate tra il 1926 e il 1928: La madre (da Gorkij), La fine di San
Pietroburgo, Tempeste sull'Asia, Il discendente di Gengis Khan. In esse
l'attenzione antropologica e il penetrante ritratto dei personaggi ha modo di
recuperare il valore della recitazione. Il regista, infatti, aveva cominciato
come attore e dedicherà all'arte della recitazione importanti saggi.
Appaiono ancora notevoli, nel quadro della giovane cinematografia sovietica, il
documentario formalistico coltivato da Vertov nell'ambito del suo gruppo Kino
Glas (L'uomo con la macchina da presa, 1929), l'epicità commossa
dell'ucraino Alexandr Dovzenko (1894-1956), giunto al cinema dalla pittura
(Arsenal, 1928, La terra, 1929, sui contrasti nati in seguito alla
collettivizzazione agraria) lo sperimentalismo tra cinema e teatro della coppia
Kosintzev-Trauberg, fondatori della FEKS, la «Fabbrica dell'attore
eccentrico», che inclinarono verso una sorta di commedia di lieve satira
quotidiana.
Mentre le teorie sul montaggio dei cineasti sovietici si
innestavano sulla tradizione documentaristica inglese, favorendo l'affermarsi in
Gran Bretagna, per tutto il periodo muto e oltre, di una rigorosa scuola dal
vero, il cinema francese del dopoguerra vive un decennio di simbiosi con i
movimenti pittorici e letterari coevi. Una reviviscenza dell'impressionismo
coinvolge talenti notevoli come Marcel L'Herbier (Il fu Mattia Pascal, 1925),
Jean Epstein (Cuore fedele, 1923), Abel Gance (Napoleone, 1926). Il cubismo
orienta Fernand Léger (Balletto meccanico, 1924); il surrealismo accomuna
le due personalità più note del periodo, René Clair
(Entr'acte, 1924) e Luis Buduel (Un chien andalou, 1928, L'age d'or, 1930).
Clair matura dall'esperienza d'avanguardia una maestria ritmica, una leggerezza
fantastica e una sorridente ironia che gli consentiranno di firmare due tra i
film di maggiore spicco del muto: Un cappello di paglia di Firenze (1927) e,
l'anno dopo, I due timidi. Anche Jacques Feyder è attivo; ma, nonostante
il successo di Atlantide (1922), il mercato francese lesina le occasioni ed il
regista emigra in Germania dove realizza un ottimo Teresa Raquin (1928) dal
romanzo di Zola.
Alla fine della guerra, la sola cinematografia europea in
grado di contrastare l'emergente supremazia hollywoodiana è quella
tedesca. La Ufa, producendo da sola oltre 200 film l'anno, ottiene singolari
risultati anche sul piano qualitativo; ma la spaventosa inflazione che afflisse
la Germania postbellica finì per mettere in ginocchio il film tedesco.
Dopo il 1925 anche l'Ufa si sottomise alla potenza del dollaro, mentre molti
registi e attori varcavano l'oceano in cerca di miglior fortuna. A rappresentare
la migliore produzione artistica di Berlino, quasi interamente incentrata sulla
poetica espressionista, fu la triade Murnau-Lang-Pabst. I caratteri
dell'espressionismo cinematografico (altrimenti vivo nella pittura e nel
teatro), la sua carica visuale fortemente drammatica, la stilizzazione deformata
di ambienti e personaggi, l'uso dell'illuminazione (L'urlo della luce) e dei
valori plastici in funzione quasi allucinativa per simboleggiare la condizione
tragica dell'individuo, stretto tra l'urgenza dei trasalimenti sociali e la
crudeltà di un destino che annienta, e suggerire allo spettatore quello
che veniva definito «lo sgomento delle cose»: sono tutte componenti
presenti nel film che è un poco il biglietto da visita del movimento: Il
gabinetto del dottor Caligari (1919), che unisce il contributo di forti
personalità sotto la direzione di Robert Wiene: lo scenografo Walter
Reimann, lo sceneggiatore Carl Mayer, gli interpreti Lil Dagover, Conrad Veidt,
Werner Krauss.
L'austriaco Carl Mayer (1894-1944) con le sue sceneggiature
fu il principale esponente di una variante dell'Espressionismo maggiormente
legata al teatro, il Kammerspiele, o «teatro da camera» appunto, in
cui il clima ossessivo e disperato si instaura nel chiuso di tragedie moderne
che recuperano nella struttura l'irreparabile fatalità delle tre
unità aristoteliche coniugandole con l'infelicità e la sconfitta
umane. Nell'ambito del Kammerspiele, risentirono delle posizioni di Mayer
registi come Paul Leni e Lupu-Pick. Il primo sviluppò uno stile
inquietante e minaccioso, scandito su di un greve gioco di luci e d'ombra che,
nell'episodio di Ivan di Tre amori fantastici (1924), avrebbe suggerito qualcosa
anche all'Ejzenstejn di Ivan il terribile. Emigrato in USA, con Il castello
degli spettri (1927), L'uomo che ride (1928) e Il teatro maledetto (1929), dette
forte impulso al gusto del cinema dell'orrore. Il secondo, con La rotaia e La
notte di San Silvestro, tra il 1921 e il 1924, offrì al dramma
individuale intimista due suggestivi modelli.
Accanto a Murnau, che con
Nosferatu sembrò interpretare un rigoroso Espressionismo e con L'ultima
risata, su sceneggiatura di Mayer, parve orientarsi esplicitamente sul versante
Kammerspiele, si colloca la figura e l'opera del viennese Fritz Lang
(1890-1976). Il suo primo film di successo, Destino (1921), reca già
esplicitato nel titolo l'ineluttabile scacco cui è condannato l'uomo.
L'anno successivo, con Il dottor Mabuse, Lang getta le basi per una nobile
utilizzazione dei canoni espressionisti nel genere poliziesco: utilizzazione che
egli stesso mise in opera dopo l'esilio negli Stati Uniti e fu praticata, negli
anni Trenta, da molti registi di Hollywood. Dopo il grandioso e mortuario I
Nibelunghi (1924), che non dispiaceva ai gerarchi nazisti, Lang diresse nel 1927
il film forse più significativo di questi anni muti, Metropolis,
singolare crocicchio di scacchi individuali e servitù sociali ambientato
nell'allucinante incubo di una città alienata che pare materializzare,
nelle sue oscure e sghembe topografie, una tensione insostenibile di lucido
delirio.
Soltanto indirettamente rientra nel movimento espressionista Georg
W. Pabst (1885-1967) per un film del 1929, Lulù, dal dramma di Wedekind
Il vaso di Pandora, che rivelò l'espressiva e incantevole
femminilità della protagonista Louise Brooks. Pabst fu, piuttosto, un
realista aperto a problematiche sociali, talvolta partecipe della poetica della
cosiddetta «Nuova oggettività»; ad esempio, in La via senza
gioia (1925), L'amore di Gianna Ney (1927), Crisi (1928), dove il racconto fa
ricorso al contributo di reportages giornalistici e di tabelle statistiche. Tra
il 1930 e il 1934, già operante il sonoro, Pabst realizzerà due
forti film di denuncia: La tragedia della miniera e il pacifista Westfront 1918;
mentre ai due anni successivi appartengono le brillanti versioni della
brechtiana Opera da tre soldi e del Don Chisciotte. Altri indirizzi si
manifestano nel cinema tedesco di quegli anni: principalmente quello
sfarzosamente spettacolare legato alla fantasia scenica di Max Reinhardt in cui
riscosse qualche successo Ernst Lubitsch (Anna Bolena, 1920).
Due fatti
determinano una svolta nella storia del cinema americano: lo scioglimento della
Triangle e la nascita di Hollywood. Il primo mette in crisi la produzione
d'arte; il secondo porta un formidabile impulso alla produzione commerciale.
All'affievolirsi della vena creativa in Griffith, Ince e Sennett corrispondono
la nascita dello star system e la politica spettacolare delle prime grosse case
di produzione. Hollywood, un sobborgo di Los Angeles, anticamente abitato dagli
indiani Cherokee, diventa gradatamente la «Mecca del cinema».
Utilizzata saltuariamente da troupes cinematografiche agli inizi del secolo,
ospita dal 1911 il primo teatro di posa permanente per girare un film. Cecil B.
De Mille, destinato a riconoscersi nel cinema kolossal e nel cattivo gusto, vi
dirige nel 1914 il western The Squaw Men.
La Paramount, con il suo slogan
«Attori famosi in opere famose» (più tardi, quello della Metro
sarà: «Più stelle che in cielo!») è la prima casa
di produzione a lanciare la formula di una storia popolare sorretta nella
curiosità del pubblico dal mito del divismo. Nel 1919, due attori ai
vertici del successo, Mary Pickford e Douglas Fairbanks sr., si uniscono a due
registi di classe superba, Griffith e Chaplin, fondando la Artisti Associati, il
cui fine era di competere, per potere e guadagno, con i grandi produttori. Ma
Chaplin a parte, che vi realizzò La donna di Parigi, La febbre dell'oro e
Il circo, la Artisti Associati conquistò il mercato con opere fatte su
misura per mettere in vetrina l'appel della Pickford, fanciulla ideale dai
riccioli biondi, soprannominata «La fidanzata d'America» (ma anche
sensibile comedienne in Rosita di Lubitsch, La bisbetica domata e Una povera
bimba milionaria di Tourneur) e gli atletici eroismi generosi di Douglas
Fairbanks diretto da Allan Dwan e Fred Niblo in Il segno di Zorro, La maschera
di ferro, I tre moschettieri, Robin Hood, Il pirata nero. Intanto, nascono e si
consumano i culti di John Barrymore, Norma Thalmadge, Lilian Gish, Edna
Purviance, Theda Bara, Clara Bow, Gloria Swanson, Charles Farrell, John Gilbert,
Ronald Colman, George O'Brien, Lon Chaney, Jack Holt, Wilma Banky, Alla
Nazimova, ecc. Tutti relegati, tuttavia, in secondo piano dal culto nevrotico e
quasi religioso cresciuto intorno alla figura dell'amante latino per
antonomasia, l'italiano Rodolfo Valentino (Rodolfo Guglielmi, 1885-1926). Ancora
oggi, ignote ammiratrici depongono fiori sulla tomba dell'acclamato interprete
de I quattro cavalieri dell'Apocalisse, Sangue e arena, Aquila nera, Monsieur
Beaucaire, Il figlio dello sceicco, tra i tanti.
Mentre De Mille si
concedeva qualche incursione nella commedia piccante (Maschio e femmina con
Gloria Swanson) e il genere kolossal trovava un nuovo cultore in Fred Niblo con
Ben Hur (1926), l'appiattimento commerciale propiziato dallo star system era
efficacemente contrastato dai registi importati dall'Europa, abituati ad un
diverso impegno di originalità creativa. Aurora (1927) di Murnau, Il
vento (1928) dello svedese Sjöström, Primo amore (1929) dell'ungherese
Fejos sono opere di sottile introspezione psicologica e di intensa
verità. Con Le notti di Chicago e I docks di New York il viennese Joseph
von Sternberg, il futuro pigmalione di Marlene Dietrich, riversa, tra il 1927 e
il 1928, lo stile espressionista nel melo nero statunitense. Nel 1924, Ernst
Lubitsch gira due commedie intrise di malizia mitteleuropea: Matrimonio in
quattro e La zarina. Ed è in un altro viennese, Eric von Stroheim che il
film muto statunitense trova il creatore più personale e genialmente
intemperante. Per parte sua, il cinema USA ha da opporre ai registi stranieri il
talento del texano King Vidor (1894-1982) i cui film mostrano un'insolita
capacità di penetrare dentro la sensibilità dell'uomo medio: non
soltanto i drammatici La grande parata (1927) e La folla (1928), ma anche quella
sorta di anticipazioni della commedia sofisticata che sono Fascino biondo e
Maschere di celluloide interpretati da Marion Davies. Infine corona la brillante
tradizione sennettiana dei comici, Buster Keaton (1895-1966), l'attore che
affronta ogni sorta di ostacoli materiali senza che non un muscolo del volto si
muova, bloccato come appare in una impassibilità tra tragica e
metafisica. Alcuni film da lui diretti e interpretati (Accidenti che
ospitalità, Il dominatore, Come vinsi la guerra, Il navigatore) hanno
indotto qualche critico a paragonarlo (e, magari, a preferirlo) a Charlot. Ma la
stralunata potenza comica di Keaton cominciò a declinare negli anni
Trenta, dopo l'avvento del sonoro.
IL MESSICO DI EJZENSTEJN
Dopo il successo internazionale de La
corazzata Potëmkin e dei successivi Ottobre e La linea generale, la
Paramount fece un contratto al regista per realizzare due film: L'oro di Sutter,
su suo soggetto originale, e Una tragedia americana dal romanzo di Dreiser. Ma,
arrivato ad Hollywood nel 1930, Ejzenstejn fu fatto oggetto di pesanti attacchi
politici e, nonostante avesse già consegnato le sceneggiature, la
Paramount ruppe il contratto. Insieme ai collaboratori Aleksandrov,
aiuto-regista, e Tissé, operatore, Ejzenstejn si trasferì in
Messico per realizzare un progetto del romanziere Upton Sinclair: un ritratto
messicano in quattro episodi, dal titolo Que Viva Mexico!. Il regista
girò sul posto una sterminata quantità di materiale: circa 65 mila
metri di pellicola; ma per dissensi con Sinclair il film rimase interrotto e
Ejzenstejn tornò in URSS.
A sua insaputa, furono montate versioni
molto parziali: Lampi sul Messico, Tempo nel sole (1940) e le antologie Giorno
di morte e Ejzenstejn in Messico. Una piccola parte di materiale fu anche
utilizzato per Viva Villa (1934) di Jack Conway.
CHAPLIN
La fama mondiale di Chaplin come autore
cinematografico si consolidò specialmente dopo il 1923, con A woman of
Paris, con cui il regista iniziò la serie dei lungometraggi che non
avrebbe più abbandonato. Ma non è azzardato sostenere che l'arte
chapliniana è già tutta esibita nelle numerosissime comiche a
corto e mediometraggio realizzate nel decennio precedente. Quando, nel 1913,
Charles Spencer Chaplin si scritturò per la Keystone di Mack Sennett, a
150 dollari la settimana, aveva 24 anni. Figlio d'arte (il padre era un comico,
la madre una cantante), aveva esordito a 5 anni sul palcoscenico di un teatro di
varietà, a Londra, dove era nato il 16 aprile 1889 (morirà, in
Svizzera, nel 1977). Presto orfano di padre, conobbe la vita misera dei
quartieri popolari londinesi e da essa trasse nutrimento la sua risentita
sensibilità sociale. Arrivò negli Stati Uniti con la compagnia di
Fred Karno, ed ebbe immediato successo in spettacoli quali A Night in English
Music Hall e A Night in a London Club rimasti in cartellone per tre anni.
Passato al cinema lavorò alla Keystone per tutto il 1914, girando 35
comiche a una o due bobine, prima soltanto come interprete poi anche come
soggettista e regista. è il periodo dell'apprendistato. Chaplin ha il
nomignolo di Chas e recita, per lo più, al fianco di Fatty Arbuckle e
Mabel Normand.
Tuttavia, il successo non si fa attendere, se l'anno
successivo Chaplin realizza 16 comiche per la Essany, che lo ha scritturato a
1250 dollari la settimana. è qui che, staccandosi dallo stile delle
«torte in faccia», si definisce il personaggio Charlot (Charlie, per i
Paesi di lingua anglosassone) sia esternamente (i baffetti, le scarpe troppo
grandi e la giacchetta troppo piccola, la bombetta e il mulinante bastoncino)
sia internamente (lo spirito libero e solitario del tramp, del vagabondo cui il
mondo è ostile, la solitudine dell'omino deluso da qualche amore
infelice, la rassegnazione e la speranza espresse dai caratteristici finali in
cui Charlot si avvia lungo la strada deserta del domani), con una ben dosata
mistura di patetismo e di comicità. I film charlottiani gradatamente si
allungano fino alle quattro bobine di Carmen, una parodia della famosa storia di
Mérimée in cui compare Edna Purviance, diventata la sua partner
fedele. L'escalation dell'omino con la bombetta è prodigiosa Nel 1916
è sotto contratto della Mutual a 10 mila dollari la settimana e i suoi
film sono ormai totalmente charlottiani: tutti costruiti su di un incalzante
contesto di gag dall'estrosa malizia intorno alla figura dello sradicato
vagabondo, costantemente respinto da quelli a cui offre amicizia o amore: Il
vagabondo, La strada della paura, L'immigrante, ecc.
La matrice della
comicità charlottiana è quella classica: l'individuo che tenta di
farsi accettare da una società ostile e in questo patetico sforzo produce
grotteschi sconquassi. Ma Chaplin ne allarga i confini culturali e ne moltiplica
le possibilità poetiche, giungendo al malinconico e, insieme, arguto
ritratto di un'umanità a tutto tondo colta nelle quotidiane disavventure
dell'esistenza, alle prese con l'emarginazione sociale, la prepotenza dei forti,
il sospetto della polizia. Un'umanità cui è concesso l'unico
spazio della strada, la cui sola solidarietà possibile è quella di
un cane o di un bambino; ma tuttavia capace di una sopravvivenza ostinata,
frutto di scaltri stratagemmi, che, per la loro assurdità, producono un
riso alonato di amarezza. Passato alla First National, con un contratto di un
milione di dollari, Charlot consegna il suo messaggio a film come Vita da cani,
Charlot soldato e, soprattutto, Il monello (1921) e ll pellegrino (1923), la cui
dimensione, rispettivamente di sei e quattro bobine, testimonia della
maturità chapliniana per il racconto a lungometraggio.
Naturalmente,
non si tratta solo di un metro quantitativo, ma di un raggiunto equilibrio
narrativo che consente a Charlot di sviluppare nelle sue storie tanto
l'esilarante rosario delle gags del clown quanto il patetico sentimento della
malinconia esistenziale, in un racconto ricco di allusioni e pienamente risolto
sul piano dell'arte, cui contribuisce uno stile semplice e diretto. La tecnica
cinematografica di Chaplin è (e resterà sempre) esente da ogni
tipo di forzatura intellettuale, fondata essenzialmente sul ritmo delle immagini
e sulla loro interiore forza espressiva. è difficile trovare nelle sue
opere l'uso effettistico del montaggio o il gusto dei movimenti di macchina
sofisticati. Charlot racconta con chiarezza e straordinario senso sintetico,
animando le inquadrature di particolari illuminanti e di acuta verità
psicologica. E proprio di intonazione eminentemente psicologica è, nel
1923, il suo primo lungometraggio (8 bobine), Una donna di Parigi, rimasto
isolato nella produzione chapliniana almeno fino a Monsieur Verdoux. La trama
s'incentra sull'amore contrastato di due giovani parigini e termina
drammaticamente con la morte dell'innamorato. Chaplin compare nel film soltanto
in una piccola parte di fianco e la comicità vi è assente (il
sottotitolo suona Un dramma del destino). Edna Purviance si rivela intensa
interprete drammatica, ben fiancheggiata da Adolphe Menjou.
Chaplin
produsse Una donna di Parigi per la United Artists, che aveva fondato con
Griffith, Pickford e Fairbanks, come i successivi La febbre dell'oro (1925) e Il
circo (1928) in cui ritorna l'impatto comico-patetico tipicamente charlottiano e
l'omino con la bombetta ricompare al centro della storia: tra i cercatori d'oro
del Klondike, nel primo film, e tra la colorita umanità del circo
equestre, nel secondo. Mentre La febbre dell'oro termina lietamente con il
protagonista divenuto ricco e amato dalla ragazza dei suoi sogni, il finale de
Il circo riprende quelli delle comiche precedenti: con il solitario vagabondo
che si allontana lungo la strada polverosa avendo appreso che la giovane
acrobata di cui si era innamorato è legata ad un altro. Ma in entrambi si
incontra, accanto al sentimento di un'irreparabile solitudine umana, lo
sbrigliarsi della fantasia di Chaplin in una serie di irresistibili trovate di
mimica comicità: come il pranzo con le suole e i lacci da scarpe divenuto
proverbiale in La febbre dell'oro.
Dopo la scelta del lungometraggio, il
lavoro di Chaplin segue linee meticolosissime: la sua apparente
semplicità espressiva nasconde una preparazione che, per un film,
può durare tre o quattro anni. Così, dobbiamo aspettare il 1931
per vedere Luci della città e il 1936 per vedere Tempi moderni. Nel
frattempo, è avvenuta la rivoluzione del sonoro, che Chaplin utilizza nel
suo linguaggio, pur senza adottare il parlato, come incentivo di comicità
(ad esempio, il numero di cabaret in cui, ricordando le sue origini, interpreta
in maniera esilarante la canzoncina lo cerco la Titina). Se Luci della
città ricalca i noti moduli narrativi, con il vagabondo che carpisce ad
un milionario ubriacone il denaro necessario per curare una fioraia cieca e
rinuncia a rivelarsi alla ragazza che ha riacquistato la vista, Tempi moderni
vive sul lievito di un umorismo beffardo, di una clamorosa ironia che toglie a
bersaglio la società meccanizzata e satireggia la religione della
macchina colpevole di annullare la libertà dell'individuo. Un'intuizione
anticipatrice e un discorso critico la cui attendibilità è
verificabile anche oggi.
Con Il grande dittatore (1940 Chaplin decide
finalmente di adottare il parlato ed i dialoghi, probabilmente colpito dalle
possibilità di satireggiare l'allucinante logorrea dei discorsi
hitleriani. Il film, che si regge sugli equivoci derivanti dalla stretta
somiglianza tra il Führer e un barbiere ebreo, è, infatti, una
spietata messa in berlina del nazismo e del suo capo. è qui che avviene
la morte cinematografica dell'omino Charlot: d'ora in avanti Chaplin interpreta
personaggi diversi (ma l'acme de Il grande dittatore è ancora un momento
tipicamente charlottiano: la danza del mappamondo, in cui Hitler sogna di
schiacciare sotto i suoi piedi tutto il mondo), come in Monsieur Verdoux (1947)
e in Luci della ribalta (1953). Attraverso la storia del vecchio clown londinese
Calvero e dei suoi sforzi per ridare fiducia ad una giovane ballerina sull'orlo
del suicidio, Chaplin consegna qui allo spettatore una testimonianza
autobiografica e della sua arte straordinariamente toccante. Dopo una vita
sentimentale molto avventurosa, Chaplin trovò la serenità nel
matrimonio con Oona O'Neill, figlia del drammaturgo Eugene. Ma le molte
relazioni del passato e un'accusa di comunismo non piacquero agli americani
dell'età maccarthista e Chaplin tornò in Europa.
Fece ancora
due film minori: Un re a New York (1957) e La contessa di Hong Kong (1967), con
Brando e la Loren, entrambi girati in Inghilterra. Hollywood ha tentato
un'imbarazzata discolpa conferendogli nel 1971 un premio Oscar alla carriera:
troppo poco per il più sensibile poeta che il cinema abbia avuto.
Charlie Chaplin, in arte Charlot, in "Luci della città"
DREYER
La passione di Giovanna d'Arco, girato in
Francia tra il 1927 e ii 1928, è il capolavoro di Carl Theodor Dreyer
(1889-1968). Il regista danese aveva già girato altri lungometraggi, ma
senza raggiungere quel rigore espressivo e quell'intensità drammatica che
lo rendono ineguagliato maestro. Qui si manifesta l'eccezionalità dello
stile di Dreyer, con quella meticolosa analisi psicologica dei personaggi
affidata a primi piani rivelatori. Il messaggio filmico del regista è
anche un messaggio di fede religiosa spinta fino all'ascetismo, così bene
risaltante nel volto di Renée Falconetti, ispirata interprete di
Giovanna. Dopo una parentesi di nordica magia (Vampiro, 1931), Dreyer torna al
prediletto motivo religioso con due film spasimati e solitari: Dies Irae, 1943,
e Laparola, 1955, importante segnale di umanizzazione della fede: è
più vicino al Signore un folle, che si crede Cristo dei suoi intolleranti
ministri. Il carattere assolutamente privo di concessioni del cinema di Dreyer
non gli consentì che di fare pochi film. L'ultimo, Gertrud (1964)
è una sorta di riflessione di Dreyer sulla propria
opera.
STROHEIM
Fu Rapacità (Greed, 1923), il film
che segnò l'acme del contrasto tra Eric von Stroheim e i produttori
hollywoodiani. Il regista austro-americano, ispirandosi ai grandi narratori
francesi dell'Ottocento, vi aveva costruito una sorta di romanzo cinematografico
corale, un ritratto violento ed acre della borghesia europea dominata
dall'ossessione del danaro, autentico simbolo e mito della società
capitalistica. L'impietoso realismo di Stroheim, ma più ancora la
lunghezza del film che la Metro rimaneggiò irreparabilmente riducendolo
da 50 a 10 bobine, fece decretare l'ostracismo al regista. Stroheim (1885-1957)
tentò ancora la carta di Queen Kelly, interpretato e prodotto da Gloria
Swanson su finanziamento di Joseph Kennedy che la proteggeva; ma anche questo
progetto andò in fumo per le concezioni grandiose del regista. Il
materiale girato che ci resta, comunque, è di straordinaria
qualità drammatica, come gli altri film diretti da Stroheim: Femmine
folli (1921), Donne viennesi (1922), La vedova allegra (1925), Sinfonia nuziale
(1926) che, tutti insieme, costituiscono un'interpretazione agghiacciante della
mortuaria inconsistenza della società asburgica dietro le apparenze della
sua fastosa eleganza. Anche come interprete, Stroheim lasciò un segno
rilevante: almeno nella raffigurazione dell'ufficiale prussiano in La grande
illusione e dell'ex regista divenuto maggiordomo in Viale del
tramonto.
HITCHCOCK
Cinquantatré sono i film diretti da
Alfred Hitchcock in un arco di tempo che va oltre il mezzo secolo (Il giardino
del piacere, sua prima opera è del 1925), ma il regista (1899-1980) non
fu subito considerato il maestro del suspense oppure «Il mago del
brivido». Per cominciare a godere di una certa fama internazionale dovette
attendere una decina d'anni. Mentre Ricatto, del 1929, e Omicidio, del 1930 sono
due timide anticipazioni, il vero «Hitch» cominciò a venir
fuori nel 1934 con L'uomo che sapeva troppo e condusse a perfezione il
poliziesco inglese con i successivi Il club dei 39, L'agente segreto,
Sabotaggio, Giovane e innocente, La signora scompare che uscì ai primi
del 1939 ma conteneva già accenti di inquietudine per il conflitto
imminente. Nel 1940, dopo l'insolito La taverna della Giamaica, cucito su misura
per Charles Laughton, Hitchcock ripara negli USA iniziando una seconda
carriera.
La inizia favorevolmente con due variazioni - drammatica e
ironica - di una tensione legata all'ambiguità in Rebecca e Il
prigioniero di Amsterdam. Ma, legati ad esigenze belliche, I sabotatori e I
prigionieri dell'oceano, tra il 1941 e il 1943, interrompono la coerenza di due
altri pregevoli biglietti da visita del regista inglese: Il sospetto e L'ombra
del dubbio. Un polpettone vagamente psicanalitico, Io ti salverò (1945) e
un mediocre film giudiziario Il caso Parradine (1947), pongono fine al rapporto
tra il regista e il produttore impiccione David o' Selznick. Tra il primo titolo
e il secondo, Hitchcock aveva prodotto da solo Notorius, divenuto un film da
culto. Ancora qualche tentativo per aggiustare il tiro. In Nodo alla gola (1948)
il regista sperimenta l'insolito linguaggio a piani-sequenza che è
l'opposto del montaggio rapido che preferisce. Poi due anni dopo, con Paura in
palcoscenico, comincia il periodo migliore. Nel 1952 l'educazione cattolica gli
suggerisce lo confesso, in cui un sacerdote riceve la confessione di un omicidio
ed ha il problema morale di rivelarne il tenore.
Tra il 1954 e il 1956, tre
film privilegiano il versante ironico del regista: Finestra sul cortile, Caccia
al ladro, La congiura degli innocenti. Poi tra il 1958 e il 1964 i suoi
capolavori: La donna che visse due volte, Intrigo internazionale, Psyco, Gli
uccelli, Marnie, in cui la linearità dello stile riesce ad esprimere
inquietanti risvolti di male, quando non, addirittura, la presenza del diavolo
in mezzo agli uomini. Dopo due titoli di routine, Il sipario strappato (1966) e
Topaz (1969), Hitchcock chiude con due film giocati con l'antica malizia del
maestro del brivido: Frenzy (1971) e Complotto di famiglia (1975).
Un'intelligenza vivacissima, il gusto del divertimento e la libertà di
non dipendere dai produttori hanno consentito ad «Hitch» di diventare
qualcosa di unico nel panorama del cinema mondiale.
HOLLYWOOD ÜBER ALLES
Il film sonoro giunge a rincalzare la
supremazia mondiale esercitata da Hollywood controbilanciando presso il
pubblico, con la novità della sua proposta, gli effetti negativi della
crisi economica del 1929, e dotando la produzione di un ulteriore genere di
successo, il musical, in cui si scarica l'enorme patrimonio delle riviste di
Broadway, delle canzoni, della musica popolare e del jazz. Tuttavia
l'affermazione del sonoro fu contrastata poiché non tutti erano persuasi
delle sue potenzialità e non pochi temevano il suo impatto sulle
abitudini del mercato. Fu quasi per disperazione che la Warner Bross, in crisi
momentanea, giocò questa carta tastando il terreno, nel 1926, con un Don
Giovanni che sincronizzava in colonna sonora alcune romanze e alcuni dialoghi
precedentemente incisi su dischi. Lo stesso regista, Alan Crosland, tentò
l'anno dopo un più radicale esperimento di fonofilm con Il cantante di
jazz, centrato sull'interpretazione di Al Jolnson che ne replicò in un
cantante pazzo (1928) il successo travolgente. Al Jolnson era un singer (=
«cantante») bianco che amava esibirsi truccato da nero come gli
artisti del burlesque; ma già nel 1919 King Vidor impiegò
autentici interpreti di colore in Allelujah!, vicenda ambientata nel Sud,
affidata alla suggestione degli spiritual e della musica nero-americana e primo
esempio di una cinematografia interessata alla vita e alla musica dei neri
d'America che ha avuto saggi recentissimi in Round Midnight e Bird.
Il
filone musicale di Hollywood favorì il recupero della vecchia operetta
mitteleuropea, soprattutto con Ernst Lubitsh (1892-1947): L'allegro tenente
(1931), Il principe consorte e Un'ora d'amore (1932), La vedova allegra (1934,
straordinaria prova ritmica e cromatica nell'esemplare gioco dei bianchi e dei
neri). Il protagonista, lo straparigino Maurice Chevalier, formò una
coppia affiatatissima con la soprano leggera statunitense Jeanette Mac Donald
godibile anche in Amami stanotte (1933) di Rouben Mamoulian. In seguito, la Mac
Donald strinse un'efficace alleanza canora con Nelson Eddy (Rose Mary Primavera,
Rosalie, tra il 1936 e il 1938). Il musical autoctono, invece, crebbe quasi
interamente sulla insolita facoltà inventiva del coreografo e regista
Busby Berkeley (1895-1976): Quarantaduesima strada, La danza delle luci, Viva le
donne, Il museo degli scandali, Donne di lusso, ecc. Fedele al suo stile
bizzarro ed estremamente movimentato, Berkeley fece in tempo sulla fine dei
Trenta, a propiziare la carriera di Judy Garland in alcuni musical interpretati
al fianco di Mickey Rooney. Più sul genere del film-rivista furono le
serie annuali delle Follie di Broadway che univano scene brillanti e numeri di
danza e canto, come nel varietà. Il massimo dell'eleganza e del gusto
spettacolari sta, comunque, nei film, prodotti dalla RKO, (Roberta, Cappello a
cilindro, Seguendo la flotta, Voglio danzar con te, ecc.) interpretati
dall'irresistibile coppia Fred Astaire-Ginger Rogers tra il 1935 e il 1939. Ma
il musical anni Trenta ebbe anche altri divi di successo: Eleanor Powell, Ruby
Keeler e Dick Powell, ad esempio.
L'ingente produzione hollywoodiana si
reggeva sull'efficienza delle maggiori case produttrici (Metro, Warner Bross,
RKO, Universal, Fox: le cosiddette Majors), sulla riconoscibilità delle
opere prodotte da troupes stabili di registi, sceneggiatori, direttori della
fotografia (è leggendaria la figura di William Daniels che seppe
amorevolmente «inventare» la fotogenia della Garbo, la quale, tra i
registi, dette la sua piena fiducia a Clarence Brown), attori protagonisti,
comprimari, musicisti, ecc.; nonché sull'intraprendenza e l'intuito di
capi della produzione come David O'Selznick (il vero autore di Via col vento) e
di Irvin Thalberg, il tycoon (= «magnate») raffigurato da Scott
Fitzgerald ne Gli ultimi fuochi. Il soddisfacimento dell'immaginario collettivo
attraverso l'autoproiezione degli spettatori sui divi e dentro le storie
appositamente confezionate a loro misura fece definire Hollywood come «La
fabbrica dei sogni». Le due massime incarnazioni del divismo femminile,
Garbo e Dietrich, erano state importate, come molti registi, dall'Europa; ma la
cinematografia USA seppe creare, accanto al «Re» per antonomasia,
Clark Gable, una riserva divistica nazionale, cui non erano estranei rilevanti
talenti drammatici (Bette Davis, Katherine Hepburn, Barbara Stanwich, Norma
Shearer, Joan Crawford, Frederich March, Spencer Tracy, Henry Fonda, Edward G.
Robinson, Charles Laughton, Leslie Howard - gli ultimi due di provenienza
inglese -, Charles Boyer di provenienza francese) oppure commedianti di elegante
espressività (William Powell, Cary Grant, James Stewart, Gary Cooper,
Carole Lombard, Irene Dunne, Rosalind Russell, Mirna Loy, e i giovani Robert
Taylor e Tyron Power).
Analogamente, accanto al musical, Hollywood condusse
in questi anni al massimo livello altri generi autoctoni come il western, il
dramma (o melodramma) gangsteristico, la commedia sofisticata. La
personalità che maggiormente contribuì a definire i contorni
autentici di un cinema statunitense fu Howard Hawks che dette opere molto
significative in ciascuno di questi generi. Il filone gangster ebbe cultori
intensi in Mervyn Le Roy (Piccolo Cesare, Io sono un evaso con Paul Muni),
Mamoulian (Le vie della città), William Wellman (Nemico pubblico con
James Cagney), Van Dyke (Le due strade), Ben Hecht (Delitto senza passione),
Archie Mayo (La foresta pietrificata), William Wyler (Strada sbarrata), e
registrò anche i thrillers espressionisti di Fritz Lang Furia e Sono
innocente realizzati tra il 1936 e il 1937. Nel 1941 apparve Il mistero del
falco di John Huston. George Cukor (1899-1983) e Frank Capra (1897) emersero
nella commedia, anche se la loro fu piuttosto una commedia brillante che non
«sofisticata» (specialmente quella di Capra interprete dell'ottimismo
e della fiducia correnti nell'età di Roosevelt). Nel genere
«sofisticato», sorretto dal gioco di una comicità stravagante,
maliziosa e impassibile, Capra firmò Accadde una notte (1934), Gregory La
Cava Letto di rose (1932) e L'impareggiabile Godfrey (1936), oltre al solito
Lubitsch con Mancia competente (1932), Partita a quattro (1933), Ninotchka
(1939), Vogliamo vivere (1942). La commedia sofisticata trovò un epigono
in Preston Sturgess con due titoli del 1941: Lady Eva e I dimenticati. La
recuperò successivamente anche Cukor con Nata ieri (1956) costruita al
servizio degli estri deliziosamente svagati di Judy Holliday. Il western,
infine, fu condotto al vertice dell'arte da John Ford (1895-1973) che
realizzò nel 1939 Ombre rosse, uno dei più bei film dell'intera
storia del cinema.
La produzione degli anni d'oro di Hollywood, tuttavia,
fondò in gran parte le sue fortune commerciali sulle sfarzose storie in
costume, i drammoni sentimentali e la riduzione di famose opere letterarie e
teatrali, poiché i nuovi produttori non la pensavano molto diversamente
dal vecchio Griffith. Si incontrano perciò titoli significativi: Le due
città e Davide Copperfield (da Dickens), Anna Karenina e Resurrezione (da
Tolstoj), Il sergente di ferro (da Hugo), Giulietta e Romeo (da Shakespeare),
Margherita Gauthier (da Dumas figlio), La voce nella tempesta (dalla
Brontë), Piccole donne (dalla Alcott), La buona terra (da Ayn Rand),
Rebecca (da Daphne Du Maurier), Avorio nero (da Allen), ecc. Il più
perfetto meccanismo spettacolare mai uscito dagli studi hollywoodiani, Via col
vento (1940), è la riduzione dell'omonimo best seller della Mitchell. Nel
grandioso laboratorio hollywoodiano non mancano le invenzioni meccaniche dai
mostri (King Kong, Frankenstein) ai gentili eroi disneyani di
carta.
IN EUROPA INVECE...
Di fronte a una tanto invadente
vitalità, le cinematografie europee non riuscirono ad organizzare
un'efficace linea di resistenza. Vi provò quella inglese che poteva
vantare il fiore all'occhiello dei documentaristi Grierson, Cavalcanti, Wright e
Flaherty, e la crescita di un cineasta d'eccezione, Alfred Hitchcock, punito
tuttavia dall'egemonia USA sul mercato. Un produttore-regista oriundo ungherese,
Alexander Korda, con la collaborazione dei fratelli Zoltan (regista anch'esso) e
Vincent (scenografo), avendo centrato un grosso successo internazionale con Le
sei mogli di Enrico VIII (1933) che aveva consacrato attori come Charles
Laughton, Merle Oberon e Robert Donat, tentò di mettere in piedi un
sistema produttivo all'americana che sfornò, dal 1934 alla guerra, alcune
opere di impegno ambizioso come La primula rossa, Bozambo, La danza degli
elefanti, Il principe Azim, Elisabetta di Inghilterra, Rembrandt, Le quattro
piume, Il ladro di Bagdad. Questo progetto dovette arrendersi per l'eccessiva
esposizione finanziaria che implicava. Dopo la fine del conflitto, Korda
ripiegò sulla posizione di produttore indipendente, aiutando la carriera
di Carol Reed, di cui produsse Il terzo uomo (1949), e appoggiando la
realizzazione del Riccardo III di Laurence Olivier, nel 1956.
La
possibilità economica di impegnarsi in realizzazioni di ampio respiro non
mancò, invece, alla cinematografia sovietica statalizzata, nelle cui file
militavano diversi registi di valore. Ma qui gli orientamenti ideologici e
propagandistici condizionavano irrimediabilmente l'esportabilità della
produzione. Seguendo le direttive di Zdanov, autorevole quanto miope sostenitore
del realismo socialista, la critica e gli organi professionali rigettarono come
formalistici molti dei migliori film sonori del periodo. Il buon livello
artistico di Ciapaev (1934) dei fratelli Vasilev, sensibile ritratto umano e
sociale di un eroe rivoluzionario, finì per funzionare come alibi per la
perentoria richiesta di vedere il cosiddetto «eroe positivo» al centro
di film che avrebbero dovuto illustrare Le qualità del nuovo cittadino
sovietico uscito dalla rivoluzione. Anche a Dziga Vertov, in Tre canzoni su
Lenin (1934), era riuscito di fondere stile e ideologia, al contrario di quanto
accadrà a Pudovkin nell'agiografico Lenin nell'anno 1918 (1939). I vecchi
fondatori del FEKS, Kosintzev e Trauberg, assorbirono il presupposto politico
nella finezza psicologica e nella verità umana di Ideologia di Massimo
(1937), storia di un comunista negli anni tra le due rivoluzioni, 1905-1917,
dove veniva anche messa a frutto la lezione intimista di un'opera del 1931, Il
cammino verso la vita, in cui Nikolaj Ekk affrontava il problema dell'infanzia.
Ma il clima era reso pesante dallo stalinismo e lo stesso Ejzenstejn ne fu
travolto. Prima, per le critiche mosse dalle gerarchie sovietiche alla sua
sfortunata avventura in Messico; poi, per l'effetto indiretto del patto
russo-tedesco che fece togliere dalla programmazione Alexander Nevskj (1938)
epica rievocazione della vittoria russa sui Cavalieri teutonici; infine, per il
sospetto di allusioni a Stalin nel ritratto solitario e tirannico di Ivan il
terribile (1942). Marginali, anche se impreziositi dal recupero della
vivacità linguistica futurista, i film musicali di Grigorij Aleksandrov,
allievo di Ejzenstejn: Tutto il mondo ride (1934), Il circo (1936), Volga Volga
(1938).
L'ideologia fu causa anche della decadenza del cinema tedesco dopo
l'avvento del sonoro. Mentre si profila imminente il massiccio esodo dei
cineasti attivi a Berlino per il nazismo e le persecuzioni razziali, il 1931 si
presenta come l'ultimo anno visitato da una produzione variamente significativa.
Ragazze in uniforme, di Leontine Sagan, sul tema scottante dell'educazione
repressiva e dell'omosessualità femminile, Il congresso si diverte, del
solitamente mediocre Erik Charrell, garbata operetta in costume con la coppia
Lilian Harvey-Willi Fritsch, Kuhle Wampe, diretto da Statan Dudov, sceneggiato
da Brecht e prodotto dal Partito comunista tedesco, squarcio di vita del
proletariato berlinese, si affiancano ai già citati film di Lang e di
Pabst. Nei disegni di Goebbels, la Ufa avrebbe dovuto conquistare il mercato
internazionale e offrire immagini glorificatrici del nazismo. Al primo compito
il colosso di Berlino attese con una politica produttiva che pareva ricalcare
certi indirizzi hollywoodiani (si arrivò a costruire divi sul modello di
quelli USA: Marika Rokk come Ginger Rogers, Zarah Leander come risposta al
fascino di Dietrich e Garbo, ecc.). Al secondo provvidero alcuni registi
ideologizzati, tra i quali la più interessante fu Leni Riefenstahl,
autrice di due documentari di intensa suggestione figurativa: Triumph des
Willens (1934), sul congresso del partito nazionalsocialista a Norimberga, e,
diviso in due parti, Olimpia (1938), sulle olimpiadi berlinesi del 1936
illustrate come mitizzazione dell'arianesimo. Forse, il più impegnato a
seguire le direttive di Goebbels fu Veidt Harlan, cui si devono l'antisemita
Suss l'ebreo (1940), l'agiografia in chiave nazista di Federico II intitolata Il
grande re (1942), Kolberg (1944) epica rievocazione di uno storico capitolo
dell'eroismo tedesco, ma anche l'interessante La città d'oro (1942) che
utilizza (come il successivo Baron di Munckhausen di Hans Albers) la
straordinaria resa tecnica dell'Agfacolor.
Più articolati gli
indirizzi assegnati dal Governo fascista al cinema italiano. Pochi i film di
esaltazione del regime (Camicia nera di Forzano, Vecchia guardia di Blasetti, I
condottieri di Luigi Trenker); non molti, tra il 1936 e il 1938, quelli dedicati
all'avventura africana (Sentinelle di bronzo di Marcellini, Squadrone bianco di
Genina, Scipione l'africano di Gallone, Il grande appello di Camerini, Luciano
Serra pilota di Alessandrini). Sulla guerra, infine, hanno un pregevole piglio
documentaristico Uomini sul fondo e Alfa Tau del comandante De Robertis, mentre
di più scoperta propaganda risultano L'assedio dell'Alcazar e Bengasi di
Genina e Giarabub di Alessandrini. Ma l'interesse mostrato dal regime per il
cinema (con la supervisione di Mussolini che aveva rispolverato lo slogan di
Lenin: «Il cinema è l'arma più forte») ebbe altri
obiettivi: più che creare consenso, era interesse primario distogliere
dal dissenso. Di qui, la produzione evasiva e superficiale dei cosiddetti
«telefoni bianchi» di cui potrebbero essere esempi perfetti i quattro
film realizzati da Max Neufeld tra il 1939 e il 1940, a conflitto incombente:
Ballo al castello, Assenza ingiustificata, Se potessi avere mille lire al mese,
Cento lettere d'amore. Inoltre, l'imperante visione autarchica imponeva di
raggiungere una competitività commerciale capace di eliminare dai
circuiti nazionali i film americani. Il Governo si impegnò materialmente
in questa direzione con la creazione del grande complesso produttivo di
Cinecittà (1937), la fondazione del Centro sperimentale di
cinematografia, una politica di coinvolgimento del capitale privato, le
provvidenze a difesa del film italiano. In tal modo, nonostante la guerra, si
arrivò, nel 1941 e 1942, a superare i cento titoli annui. La
qualità, naturalmente, era un'altra cosa.
Un sensibile risveglio
artistico e un miglior livello produttivo erano stati propiziati, all'inizio del
decennio, dall'attività della nuova Cines affidata alla direzione di
Emilio Cecchi che vi coinvolse giovani sceneggiatori, come Mario Soldati e Aldo
Vergano, e registi promettenti. Uscirono dalla Cines film come Gli uomini che
mascalzoni di Mario Camerini, 1860 e La tavola dei poveri di Alessandro
Blasetti, Acciaio di Walter Ruttman su soggetto di Pirandello. Camerini e
Blasetti furono i due autori di punta del periodo; e il loro lavoro
preparò, con il contributo del soggettista e sceneggiatore Cesare
Zavattini, l'avvento del neorealismo. Il primo (1895-1981) coltivando una
sorridente attenzione alla vita di tutti i giorni raccontata con controllata e
talvolta maliziosa levità sentimentale (il cosiddetto «realismo
rosa»), diresse, oltre a Gli uomini che mascalzoni, Darò un milione
(1935), Ma non è una cosa seria (1936), Il signor Max (1937), Grandi
magazzini (1939): tutti incentrati sull'interpretazione di Vittorio De Sica
(insieme ad Alida Valli e Amedeo Nazzari, unico «divo autarchico»). Il
secondo (1900-1987), più eclettico ed esuberante, unì al gusto del
racconto popolare e piccolo borghese (da Sole, 1929, a Quattro passi tra le
nuvole, 1942, e, nel dopoguerra, Prima comunione, 1950) l'arioso recupero
dell'avventura un po' fantasticata e beffarda, tra storia e leggenda: da Ettore
Fieramosca (1938) a Un'avventura di Salvator Rosa (1939) da La corona di ferro a
La cena delle beffe entrambi nel 1941. Anche se cercò di governarne le
sorti, il regime non ottenne mai l'adesione dei cineasti italiani.
Verso il
1940, tra le leve più giovani, prese spazio un indirizzo che, non potendo
affrontare i problemi della realtà e non volendo appiattirsi nella
conformistica evasione dei «telefoni bianchi», scelse di rifugiarsi
nella formalistica trascrizione sullo schermo di capolavori letterari: Renato
Castellani (Un colpo di pistola e Zara), Mario Soldati (Piccolo mondo antico,
Malombra), Alberto Lattuada (Giacomo l'idealista), Ferdinando Maria Poggioli
(Sissignora, Gelosia, Le sorelle Materassi, Il cappello da prete).
Un
bilancio francamente positivo è quello del cinema francese rinvigorito
dal sonoro. Nonostante alcune perplessità iniziali (in Sotto i tetti di
Parigi, 1930, i dialoghi sono coperti dai rumori della vita cittadina o attutiti
per la distanza), René Clair (1898-1981) finì per arricchire il
suo stile proprio con il sonoro creando un inimitabile contrappunto tra immagine
e suono. Con Il milione (1931) e 14 luglio (1933) il regista ritorna con effetti
di straordinaria felicità espressiva al clima di libero e ironico
vaudeville già presente nelle sue ultime realizzazioni mute. Per contro,
in A me la libertà (1932) e L'ultimo milionario (1934) entrano nella sua
poetica l'attenzione ai problemi sociali e la satira dell'alienazione
dell'individuo davanti alla macchina che anticipa il Chaplin di Tempi moderni.
Per l'insuccesso commerciale de L'ultimo milionario, Clair emigrò in
Inghilterra dove diresse due opere di fine comicità: Il fantasma galante
(1936) e Vogliamo la celebrità (1938) con Maurice Chevalier. Dal 1940
fino al dopoguerra fu ad Hollywood riuscendo a realizzare tre piccoli
capolavori, ricchi di incantevole spirito: L'ammaliatrice, 1941, con Marlene
Dietrich, Ho sposato una strega, 1942, Accadde domani, 1944, intriso di una
fantasia quasi surreale. Tornato in Francia, siglò un altro film
indimenticabile, Il silenzio è d'oro (1947, ancora con Chevalier), in cui
il sentimento d'amore per Parigi si unisce all'affettuosa nostalgia per il
cinema delle origini.
Le lontane radici naturalistiche accomunano,
nell'impronta realistica e popolare, tre autori come Jean Renoir Jacques Feyder
e Julien Duvivier. Renoir (1894-1979), figlio del famoso pittore impressionista
Auguste, è uno dei maestri del cinema mondiale. L'adesione alle posizioni
del Fronte Popolare fa evolvere il naturalismo zoliano de La cagna (1931) in un
robusto umanesimo ben radicato nella visione sociale della vita, il cui primo
frutto è Toni (1934) di cui ebbe a ricordarsi il Visconti di Ossessione.
Il delitto del signor Lange (1935), Verso la vita (1936) e La scampagnata (1936)
sono tre differenti metafore narrative sullo spirito del Fronte popolare, mentre
La Marsigliese (1937) è una sontuosa rievocazione della Rivoluzione ricca
di riferimenti all'attualità. Il generoso umanitarismo del regista
trovò accenti consapevoli di verità, lucida analisi ideologica e
commossa partecipazione nel messaggio pacifista del suo capolavoro, La grande
illusione (1937). Dopo un ritorno a Zola nell'intensa drammaturgia de L'angelo
del male (1938), con La regola del gioco (1939) Renoir riuscì ad
assorbire l'amarezza per la guerra incombente nell'ironica rappresentazione dei
malesseri e del fallimento democratici di fronte alla follia hitleriana.
Emigrato ad Hollywood, il regista firmò due film significativamente
centrati sul rapporto tra l'uomo e la terra (La palude della morte, 1941, e
L'uomo del Sud, 1945); rapporto che ritorna ne Il fiume, girato in India nel
1952.
Feyder (1888-1948), tipico esempio di cineasta internazionale, dette,
tra il 1933 e il 1934, al cinema francese, due film di levatura non eccezionale
(Il grande gioco e Pensione Mimosa); ma toccò i vertici dello stile in
Kermessé eroica (1935) in cui un intrigo erotico-avventuroso ambientato
nelle Fiandre del XVI secolo è raccontato sullo schermo con il corposo
colore figurativo della pittura fiamminga. Il tema della fatalità, del
disilluso pessimismo sulla vita, non privo di lontane influenze religiose,
trattato con un realismo cupo che si avvale della maestria del linguaggio
cinematografico ma sconta una certa dozzinalità letteraria, distingue i
film di Duvivier (1896-1967): Pel di carota (1932), La bandera (1935), La bella
brigata (1936), Il bandito della casbah (1937), Carnet di ballo (1938) in cui si
rivela la forza interpretativa di Jean Gabin. Poeticamente assai più
definiti, anche per l'apporto in sceneggiatura di Jacques Prévert
(nipotino di Baudelaire nel considerare la città notturna come teatro
della morte), i film di Marcel Carné (1909) il cui disperato realismo si
riveste di una visività distillata in rarefatte atmosfere di inquietante
suggestione, sospesa tra notturni sgomenti e plumbei chiarori che preannunciano
la catastrofe. Il realismo da «nero» diventa quasi magico in Il porto
delle nebbie (1938) e Alba tragica (1939) ancora interpretati da Gabin; si
farà totalmente magico in L'amore e il diavolo (1942) e Amanti perduti
(1945), superba esercitazione lirica e stilistica sulla Parigi teatrale del
primo Ottocento.
QUALCHE NOME
HUSTON
Tra i migliori
film di Hollywood vi è Il mistero del falco (1941), dal romanzo di
Dashiell Hammett, con Humphrey Bogart nei panni del detective Sam Spade. Con
questo film, Huston (1906-1987), soggettista e sceneggiatore, esordì
nella regia.
La sua filmografia comprende risultati di diverso livello e
impegno registico diseguale, ma indica con chiarezza la propensione di Huston
per la trasposizione sullo schermo di opere letterarie: Il tesoro della Sierra
Madre (1948), L'isola di corallo (1948), Giungla d'asfalto (1950), La prova del
fuoco (1951), La regina d'Africa (1951), Moulin Rouge (1952), Moby Dick (1956),
Le radici del cielo (1958), La notte dell'inguana (1964), Riflessi in un occhio
d'oro (1967), Città amara (1972), L'uomo che volle farsi re (1975),
Sangue selvaggio (1979), Sotto il vulcano (1984), sono i suoi titoli migliori,
tutti con il riferimento costante-ad un modello letterario.
Tra essi, La
regina d'Africa, con Bogart e Katherine Hepburn e Città amara sono due
piccoli capolavori.
FORD
Due grandi filoni tematici si ritrovano
nella sterminata (quasi 200 titoli) filmografia di John Ford (Sean Aloysius
Freeney, 1895-1973): quello irlandese, legato alle proprie radici familiari, e
quello statunitense, animato dall'amore per il Paese in cui nacque, tredicesimo
figlio di una famiglia di immigrati. In quest'ultimo è compreso il ricco
e affascinante gruppo di film western ai quali è principalmente legata la
sua popolarità. In effetti, nel primo periodo della sua carriera
registica hollywoodiana, cominciata nel 1916, Ford realizzò
essenzialmente western di serie B. Ne aveva diretti una cinquantina, quando, nel
1924, firmò il suo primo capolavoro, Il cavallo d'acciaio, storia della
costruzione della grande ferrovia tra Atlantico e Pacifico, voluta da Abramo
Lincoln e simbolo della riunificazione nazionale dopo la guerra di secessione.
Ma è significativo che, quando, nel 1920, riuscì a girare una
storia non western, The prince of Avenue A, il soggetto fosse centrato sulla
vita degli irlandesi di New York. E sarà d'ambiente irlandese un altro
dei suoi primi capolavori, Il traditore (1935), interpretato da Victor Mc Laglen
che già era comparso in due altri film fordiani d'ambiente irlandese: La
canzone della mamma (1927) e La casa del boia (1928).
Il filone fu seguito
da Ford fino all'ultimo: soltanto la salute malferma lo distolse dal terminare
le riprese di Il magnifico irlandese nel 1965. In precedenza, lo aveva coltivato
con L'aratro e le stelle (1936) dal dramma di O'Casey, Viaggio senza fine (1940)
dai drammi marini di O'Neill, L'uomo tranquillo (1952), un altro capolavoro,
Storie irlandesi (1957) e L'ultimo hurrà (1958). Ma è soprattutto
irlandese lo spirito del bozzettismo umoristico e cordialmente stralunato che si
incontra in molti aneddoti di vita militare di western come I cavalieri del Nord
Ovest (1949) e Rio bravo (1950), e la sgangherata ironia pacifista di Bill sei
grande! (1950) e Uomini alla ventura (1952). Considerato con frettoloso giudizio
come un autore dedito alla celebrazione dei valori militari, Ford ha in
realtà costantemente onorato un cinema contrario alla guerra, pacifista,
conseguentemente alla sua visione cattolica e contadina della vita. è
stato certamente, un memorabile evocatore di immagini della storia militare
degli Stati Uniti; ma soltanto perché l'esercito (la cavalleria)
entrò oggettivamente nella collettiva epopea statunitense del secolo
scorso, nella sua epica avventura all'Ovest. Avventura, tuttavia, di coloni, di
allevatori, di uomini e di comunità in cerca di una nuova terra sulla
quale vivere e lavorare: costretti, qualche volta, ad estrarre la pistola o ad
imbracciare il fucile per eliminare quei nemici che contrastavano il loro onesto
e civile ideale. Uno dei più forti film contro la guerra, Ford lo
realizzò nel 1928: L'ultima gioia, storia di una donna tedesca che ha
perduto nel conflitto tre dei quattro figli.
Se lo spirito statunitense
è squisitamente individualista, Ford gli resta fedele caratterizzando
psicologicamente ciascun personaggio, ma collocandolo all'interno di una
più o meno piccola comunità: la diligenza di Ombre rosse (1939)
come l'automobile sgangherata di Furore (1940), l'accampamento di La pattuglia
sperduta (1934) come i carri di La carovana dei Mormoni (1950), la nave di
Viaggio senza fine come il villaggio di Tombstone di Sfida infernale (1946), la
famiglia dei minatori di Com'era verde la mia valle (1941) come la prigione
femminile di Missione in Manciuria (1965). Sembra che dell'epopea della
frontiera al regista stia a cuore cogliere la tensione per le nuove fondazioni
comunitarie, i loro problemi e le loro difficoltà. Nei suoi film militari
l'azione bellica occupa soltanto la parte finale della storia; tutto il resto
è illuminazione e descrizione dei rapporti quotidiani tra i personaggi.
L'originario cattolicesimo irlandese (che gli suggerirà La croce di
fuoco, 1947, da Graham Greene) isola la violenza e la priva del compiacimento.
In un'opera risentita come Sentieri selvaggi (1956), l'amore per la nipote
scioglie nel cuore del protagonista l'odio dovuto alla sua unione con un capo
indiano e gli impedisce di ucciderla dopo averla cercata per anni a questo
scopo. Perfino i Pellirosse sono accomunati nel disegno americano di Ford e
fuggono dalla riserva per tornare pacificamente alla terra degli avi nello
struggente Il grande sentiero (1946). E in L'uomo che uccise Liberty Valance
(1962) il vecchio sceriffo si vergogna d'aver ammazzato un fuorilegge e lascia
che a trarne gloria sia un altro.
Anche i film fordiani che appartengono
alla routine conservano un inconfondibile segno della personalità del
loro autore: una delle personalità più significative dell'intera
storia del cinema. A chi gli chiedeva quali fossero i vecchi maestri che
più amava, Orson Welles soleva rispondere: John Ford, John Ford, John
Ford, John Ford... Per parte sua, Ford ha sempre lavorato con immutata
semplicità professionale. Dentro ad ogni inquadratura il racconto si
calibra attraverso la recitazione degli attori e la cura straordinaria
dell'illuminazione, che tiene conto tanto del cinema espressionista europeo
quanto della pittura coloniale statunitense. Il merito principale di Ford resta
quello di avere conferito, attraverso l'uso della psicologia, dignità
artistica e spessore umano al genere western. La fedeltà alla vena
psicologica consente al regista di girare delicati ritratti storici, come quello
di Lincoln giovane in Alba di gloria (1940), e movimentati quadretti ambientali,
Il sole splende alto (1953), oppure umani, In nome di Dio (1948).
Ma il
senso poetico più fondo del cinema fordiano sta nella qualità
ampia e solenne del suo ritmo narrativo, apparentato, nel rapporto tra tempo e
spazio, con quello dei classici letterari americani dell'Ottocento: c'è
Melville sotto il ritmo di film come Sfida infernale e La carovana dei
Mormoni.
WELLES
Nel 1939, quando Orson Welles (1915-1985)
andò a Hollywood con un contratto con la RKO che lo impegnava alla
realizzazione di Quarto potere, aveva soltanto 24 anni ed era già un nome
celebre. Vincitore di una borsa di studio alla Todd School di Woodstock per
alcuni spettacoli studenteschi, agli inizi degli anni Trenta è in Europa
per studiare pittura, ma finisce attore al Gate Theatre di Dublino. A vent'anni
è primo attor giovane con la famosa attrice americana Katherine Cornell;
a ventidue fonda a New York con John Houseman il Mercury theatre e collabora
all'iniziativa roosveltiana del Federal theatre. La sua predilezione scespiriana
e il genio inventivo del regista si rivelano in due spettacoli famosi: Macbeth,
interpretato da attori negri tra riti di woodou e musiche antillane, e Giulio
Cesare, in abiti moderni come metafora del fascismo. A Shakespeare
tornerà con tre film di memorabile resa espressiva: Macbeth (1948), visto
come tragico scontro tra le pulsioni dell'inconscio e la chiarità della
ragione, Otello (1952), trasferito in un clima inquietante e barbarico, Falstaff
(1966), in cui compone un ritratto struggente e autunnale del grosso e gaudente
personaggio e della sua solitaria vecchiaia.
Quarto potere è
realizzato da Welles dopo la clamorosa provocazione con cui, l'anno avanti, dai
microfoni della CBS, aveva terrorizzato gli USA facendo prendere per vera
un'invasione di marziani contenuta nella sua riduzione radiofonica di La guerra
dei mondi di Herbert George Wells. La stessa originalità di linguaggio,
ma in un impasto meno aggressivamente giovanile, artisticamente più
meditato, sta alla base di L'orgoglio degli Amberson (1942), storia della
decadenza di una ricca famiglia in una cittadina del Sud, che rientra nei
capolavori della filmografia wellesiana. Lo stile del regista anticipa i tempi e
il gusto corrente. La critica è entusiasta, ma il pubblico resta
perplesso. Inoltre Welles chiede ai produttori investimenti alti e totale
indipendenza artistica; finisce pertanto sulla lista degli indesiderabili come,
anni avanti, era successo a Eric von Stroheim. Dopo un meno riuscito Lo
straniero (1946), il regista dirige un film-chiave della sua poetica, La signora
di Shanghai (1947), in cui sviluppa un forte sentimento dell'ambiguità
tra bene e male (shakespeariano anch'esso) accompagnandolo con il vertiginoso
gioco barocco delle immagini. Questa volta Hollywood non gli perdona di aver
smontato il cliché di Rita Hayworth, sex symbol in carica e (allora)
moglie di Welles. Ai suoi film vengono apportati tagli devastanti e i suoi
progetti non trovano approvazione. Il regista emigra in Europa e comincia ad
autofinanziarsi con l'attività di attore in cui per altro coglie qualche
interpretazione di grande risalto (Il terzo uomo, Moby Dick, ecc.). Firma ancora
due thriller di classe: Rapporto confidenziale (1954) e L'infernale Quinlan
(1958), la riduzione di un racconto di Karen Blixen, Storia immortale (1968), la
trascrizione per lo schermo di Il processo (1962) di Kafka, l'autobiografico F
come Falso (1973), una coproduzione franco-tedesco-iraniana cui affida il
proprio ritratto di mago, ciarlatano ed artista. Negli ultimi anni, trascorsi
nella costante ricerca di capitali, Welles ha scritto decine di sceneggiature e
girato migliaia di metri di pellicola, lasciando diversi film
incompiuti.
Un'immagine di Orson Welles
HAWKS
Se si dovesse indicare un regista che
meglio di ogni altro incarni lo spirito e le forme del cinema statunitense,
nella sua essenza più autentica e originale, passando attraverso i
condizionamenti e le formule della produzione hollywoodiana senza troppo
impensierirsene, altro nome non si potrebbe fare che quello di Howard Hawks. Nei
suoi film ci sono il gusto di raccontare, innanzi tutto, storie bilanciate sulla
commedia e l'avventura, la concretezza vitale dei personaggi e delle vicende
rappresentati, la filosofia che, tra ottimismo e moralità, pone l'accento
sul fare piuttosto che sul meditare. Hawks infine ha saputo esprimersi nei
generi più tipici del cinema USA. Così, ad uno Scarface (1931) che
costituisce il punto più alto del filone gangsteristico risponde Il fiume
rosso (1948) western epicizzato tra scontri generazionali e migrazioni delle
mandrie; a Ventesimo secolo (1934) saporito frutto della commedia sofisticata
corrisponde Avventurieri dell'aria (1939), profilo incisivo del rapporto
drammatico e cameratesco di un gruppo di piloti aerei. La commedia sofisticata
fu la scelta prevalente di Hawks (1896-1977): da Capitan Barbablù (1928)
a Susanna (1938), da La signora del venerdì (1940) a Colpo di fulmine
(1942), da Venere e il professore (1948) a Ero uno sposo di guerra (1949), da Il
magnifico scherzo (1952) a Lo sport preferito dall'uomo (1964).
Ma troviamo
toni di commedia anche nei suoi western, accanto alla liricità di Il
grande cielo (1952), in Un dollaro d'onore (1959), El Dorado (1967) e in quel
western africano che è Hatari! (1962). Ci sono toni di commedia anche in
soggetti avventurosi: Rivalità eroica (1933), Arcipelago in fiamme
(1943), Acque del Sud (1944); oppure in un thriller come Il grande sonno (1946).
Tra commedia e avventura per Hawks non correva differenza: si trattava di due
diverse reazioni di fronte ad una situazione imbarazzante, affrontata
comicamente o virilmente.
BUÑUEL
Luis Buñuel (1900-1983) ha
conservato fino all'ultimo lo spirito corrosivo e provocatorio che aveva
contraddistinto il beffardo anarchismo degli anni giovanili: basti pensare alle
graffianti sequenze iniziali de Il fantasma della libertà (1974) o alle
misteriose esplosioni terroristiche che accompagnano il racconto di Quell'oscuro
oggetto del desiderio, (1977). C'è anche una certa memoria
dell'esperienza surrealistica condivisa a Parigi negli anni Venti e Trenta,
anche se smorzata e resa più elastica dall'intervento di una saggia e
sorridente malizia. Specialmente in Bella di giorno (1967) e in Il fascino
discreto della borghesia (1972) il regista pare realizzare un nuovo equilibrio
espressivo per cui le sue storie, fondate sui nessi di oscure e
fantasticheggianti motivazioni interiori, si snodano con una singolare
naturalezza ed evidenza, con una leggerezza aggraziata e quasi musicale. Per
contro, in La via lattea (1969) agisce un rabbioso spirito dissacratorio, come
sempre, del resto, quando Buñuel è mosso dal risentimento
religioso. Il suo ateismo sottintende, in realtà, una aspirazione alla
purezza mistica calpestata e delusa dai falsi rituali mondani. Come viene
dimostrato da Nazarin (1958), Viridiana (1961), L'angelo sterminatore (1962) e
Simon del deserto (1965), la quadrilogia realizzata in Messico, in cui il
regista illustra sarcasticamente l'impossibilità di un'esistenza
veramente cristiana a contatto con i condizionamenti sociali e le superstizioni
correnti.
Un certo gusto del paradosso, conservato fin dai tempi della
militanza surrealista a Parigi, è sempre attivo nel cinema bunueliano; ma
le sue posizioni negative sono più radicali e rivoluzionarie.
Specialmente in quella direzione antiborghese che aveva maturato negli anni
Venti, nel milieu surrealista, testimoniata da due film di eccezionale carica
eversiva e di esemplare coerenza antirealistica: Un cane andaluso (1928) e
L'età d'oro (1930), sceneggiati con Salvador Dalì e
apprezzatissimi da Breton, Aragon e compagni. Nel 1932, utilizzando una piccola
eredità, Buñuel onora il versante marxista del surrealismo,
girando Terra senza pane, impressionante testimonianza della miseria e
dell'oppressione di un centro contadino di Spagna. Per una quindicina d'anni,
Buñuel abbandona la regia. Soltanto dopo il 1945, il regista torna a
dirigere film in Messico, con una serie di titoli importanti: I figli della
violenza (1951), Lui (1953), Estasi di un delitto (1955), in cui scandaglia
originalmente il mondo sommerso sotto personaggi e comportamenti sociali. Nel
1964, inizia la collaborazione di Buñuel con lo sceneggiatore Jean Claude
Carrière in Il diario di una cameriera, dal romanzo di Octave Mirabeau,
con cui si apre l'ultima e splendida (vi rientra anche Tristana del 1970) fase
della creatività del regista, che frutta un ritratto borghese multiplo e
feroce.
Il regista spagnolo Luis Buñuel
I RE DELLA RISATA
Fin dalle origini, con le brevi e rapide
storie «delle torte in faccia» di Mack Sennett, le sorti del cinema
procedono indissolubilmente legate a quelle del genere comico; ed è da
comici come Chaplin e Keaton che la nuova arte riceve il suggello dei risultati
eccellenti. Anche fuori dei due medesimi esponenti, il cinema comico è in
grado di esibire personalità di rilievo. La dinastia dei cosiddetti
«re della risata» è popolosa e multiforme. Da Harry Langdon
(1884-1944), che ottenne grande successo nel periodo muto con tre film (La
grande sparata, 1926, Di corsa dietro un cuore, 1926, Le sue ultime mutandine,
1927) realizzati con la collaborazione del giovane Frank Capra, a Harold Lloyd
(1893-1971), che seppe far valicare al suo personaggio di Luke il solitario,
vagamente ispirato all'ingenuo e ottimista vagabondo charlottiano, i confini del
sonoro (A rotta di collo, 1928, La frenesia del cinema, 1932, Zampa di gatto,
1934, La via lattea, 1936, Meglio un mercoledì da leone 1946), a Eddie
Cantor (1892-1964) che alternava la presenza cinematografica a quella teatrale
ed era un poco la sintesi tra Langdon e Lloyd, con in più una notevole
capacità canora (Il re dell'Arena, Il museo degli scandali, Coniglio o
leone, tra il 1932 e il 1936).
Dopo aver chiuso la carriera in proprio,
Harry Langdon fu, con Leo Mc Carey, Charles Rogers, James W. Horne e altri
specialisti, tra i collaboratori ai film di Stan Laurel (1890-1965) e Oliver
Hardy (1892-1957): la coppia più popolare del cinema comico americano,
che in Italia si chiamava Cric e Croc oppure Stanlio e Ollio. Stan Laurel era
inglese e aveva sostituito Chaplin nella compagnia di Fred Karno durante una
tournée a New York. Anche Oliver Hardy era arrivato allo schermo dal
palcoscenico. Ciascuno dei due futuri compari aveva sviluppato una carriera
particolare; nel 1917, recitarono occasionalmente insieme nel cortometraggio
Lucky Dog; tuttavia la coppia si formò stabilmente nel 1927 con un altro
short: Metti i pantaloni a Philip. Girarono insieme 24 lungometraggi sonori, da
Muraglie, 1931, a Atollo K, 1951; ma il periodo di maggior successo fu negli
anni Trenta fino all'inizio dei Quaranta, con titoli indimenticabili come I due
legionari, 1931, Fra Diavolo, 1933, I figli del deserto, 1934, Gli allegri eroi,
1935, Noi siamo zingarelli, 1936, I fanciulli del West, 1937, I diavoli volanti,
1939, Sim Sala Bim, 1942. La comicità di Stanlio e Ollio seguiva schemi
precisi: di solito, il «mingherlino» faceva svagatamente precipitare
nella catastrofe le compunte iniziative del «ciccione» ma, di tanto in
tanto, previa una rapida occhiata di intesa, i due amici procedevano uniti alla
meticolosa distruzione di qualcosa, automobile o appartamento che fosse. Dopo la
guerra, tramontata la loro stella, Cric e Croc ebbero due mediocri continuatori
in Gianni e Pinotto (Bud Abbott e Lou Costello).
La comicità di
gruppo ha avuto, tuttavia, l'espressione più alta nei fratelli Marx
(Chico, Harpo, Groucho e, talvolta, Zeppo), lunari e imprevedibili frantumatori
di ogni possibile realtà americana: da quella quotidianamente materiale
all'altra, ideologica, del benessere e del successo. Era Groucho, con i baffoni
e il sigaro, a condurre le operazioni, aiutato da Chico che, attraverso
l'abbigliamento da immigrato italiano, simboleggiava le minoranze etniche
d'oltre oceano. L'intervento decisivo, tuttavia, era sempre di Harpo, muto, con
lo sguardo trasognato sotto la parrucca rossa, estemporaneo musicista e folle
anarchico del comportamento. Provenienti dal Burlesque, figli d'arte, i Marx
hanno dato al cinema quattordici film esilaranti, i cui titoli migliori sono,
dopo l'esordio con Le noci di cocco e Animal crackers, tra il 1929 e il 1930, Un
imbroglio, 1931, Una notte all'Opera, 1935, Un giorno alle corse, 1937, Duck
Soup, 1939, Il bazar delle follie, 1941.
Diversi sono stati i comici
statunitensi del dopoguerra: Red Skelton (1913), segnalatosi con Mademoiselle
Dubarry nel 1943 e ritiratosi dagli schermi dieci anni dopo; Danny Kaye (1913)
fantasioso e trasognato interprete di Sogni proibiti, 1947, e Il favoloso
Andersen, 1952; Jerry Lewis (1926) dapprima in coppia con Dean Martin, poi
protagonista «picchiatello» di avventure sfortunate affrontate con un
disagio anche fisico al limite della nevrosi (Ragazzo tuttofare, 1960, Le folli
notti del dottor Jerryl, 1963, Re per una notte, 1983, dopo un silenzio di molti
anni).
Il cinema europeo è assai meno prolifico. Meritano un
ricordo, in Francia, il marsigliese Fernandel e Jacques Tati, clown delle
poetiche divagazioni; in Italia, Totò (Antonio de Curtis, 1898-1967):
geniale sintesi tra la maschera di tradizione partenopea e la supermarionetta
meccanica futurista.
Stan Laurel e Oliver Hardy
WALT DISNEY E IL CINEMA D'ANIMAZIONE
è stato chiamato l'Esopo moderno e
il papà del cinema d'animazione. In realtà, il principale merito
di Walt Disney (1901-1966) è quello di aver saputo trovare la formula
che, conciliando ragioni artistiche e ragioni commerciali, ha imposto il
«cartone animato» come uno dei fenomeni più popolari del
mercato cinematografico mondiale. Prima di Disney, la pratica dell'animazione
avveniva in un ambito assai più limitato, spesso mossa dal desiderio di
sperimentazioni tecniche in un genere che realizzava il movimento delle figure
disegnate mediante la ripresa di una successione delle singole immagini,
ciascuna contenente l'esatta riproduzione delle posizioni intermedie.
«Animazione» vuol dire questo: ottenere con una sintesi visiva
l'impressione del moto di disegni statici. C'erano state, intorno agli anni
Venti, iniziative di una produzione più o meno industriale di disegni
animati, come lo studio del magnate William Randolph Hearst, cui sovrintese per
qualche tempo il futuro regista Gregory La Cava; ma la scala di produzione era
limitata e gli eroi di carta venivano per lo più presi dalle strisce dei
fumetti pubblicati sui giornali (lo stesso nome, «cartoni animati»,
è una traduzione vocale del termine cartoon, fumetti). è il caso
di Krazy Cat, popolarissimo personaggio delle strisce domenicali di George
Harriman.
In genere, fu il sonoro ad offrire un formidabile trampolino di
lancio per i cartoni animati e Disney seppe coglierlo tempestivamente. Il cinema
sonoro decretò il tramonto di personaggi di successo, come l'altro gatto,
Felix the Cat, creato da Pat Sullivan e Otto Mesmer, noto in Italia come Mio Mao
(lo stesso Disney fallì il colpo con Oswald the Lucky Rabbit, un
animaletto strano a mezzo tra Mio Mao e Topolino, nel 1927, mentre i suoi
collaboratori che lo avevano ereditato gli assicurarono almeno dieci anni di
successi sonori), ma favorì l'esplosione di nuovi divi: la cagnetta sexy
Betty Boop, il forzuto marinaio Braccio di ferro, tolto da una strip di Elsie C.
Segar, il clown Koo e il cane Bimbo, animati dai fratelli Fleischer.
Il
cartone animato era uno short di 5-8 minuti che veniva proiettato insieme ai
film di lungometraggio, incontrando l'approvazione anche del pubblico adulto.
Quasi tutte le Majors hollywoodiane lanciarono le loro serie e i loro eroi.
Braccio di ferro era della Paramount, la Metro aveva Bosko, linguacciuto
protagonista della serie Happy Harmonies («Armonie felici»), la Warner
Bross puntava su Porky Pig, un porcellino un po' balbuziente, Daffy Duck,
un'anatra surreale, e il suo antagonista Taddeo, Bugs Bunny, coniglietto
pettegolo e la serie delle Merrie Melodies («Melodie allegre»). Tutte,
comunque, si muovevano nel solco aperto da Disney.
Grafico pubblicitario a
Kansas City insieme a Ub Iwerks, che sarà il suo animatore più
geniale, Disney è a Hollywood nel 1923 impegnato nella serie Alice in
Cartoonland, in cui attori in carne ed ossa compaiono accanto ai disegni
animati. Nel 1927, con Iwerks tenta la carta di Lucky Rabbit. Ma l'anno seguente
lo abbandonò e, fondata la Walt Disney Productions, abbracciò la
causa del cinema sonoro. Sempre con Iwerks, aveva creato un nuovo personaggio
che godrà di un immediato successo mondiale: Mickey Mouse, Topolino. Ne
farà il protagonista del primo cortometraggio sonoro, Steamboat Willie.
Nel 1929, Disney inaugura, con Skeleton Dance, la serie delle Silly Simphonies
che lo consacrò come indiscusso mago del genere. Durante tutti gli anni
Trenta, lo studio Disney realizzò una media di diciotto cortometraggi
d'animazione l'anno, apportandovi continue innovazioni, come l'impiego del
colore, in Fiori e alberi del 1932, e l'effetto tridimensionale in Il vecchio
mulino del 1937. Analogamente, Disney arricchì costantemente la sua
galleria di personaggi di successo: con Minnie, la fidanzata di Topolino, il
cane Pluto, lo stizzoso anatroccolo Donald Duck (Paperino) che, dal 1937,
divenne protagonista di una serie autonoma, in alternativa a quella di Topolino;
altri personaggi di contorno furono Pippo, Orazio e Clarabella. L'invenzione
comica di questi eroi animati consisteva nel fornire la loro natura zoomorfa di
abitudini, comportamenti e reazioni umane. Lo scambio tra zoomorfo e
antropomorfo era radicato nella poetica di Disney e ricorrerà anche nella
sua produzione a lungometraggio.
Una componente importante del mondo
espressivo disneyano è quella sonoro-musicale. I suoi animaletti
arricchiscono la loro originale comicità esibendo qualcosa di simile ad
una grottesca e caricaturale voce umana; ma questo effetto viene dilatato
nell'accostamento musicale delle Silly Simphonies: come nell'esempio del
motivetto dei Tre porcellini, Chi ha paura del lupo cattivo, che diventò
proverbiale negli USA e nel mondo (durante la guerra civile, gli spagnoli lo
canticchiavano sotto i bombardamenti dell'aviazione franchista). Il compositore
disneyano per eccellenza fu Frank Churchill, cui si devono le canzoni di
Biancaneve e i sette nani, questa volta anche in funzione romantica. Biancaneve
e i sette nani, che Disney realizzò nel 1937, fu il primo lungometraggio
animato e un autentico colpo di genio del suo autore i cui effetti si vedono
ancora negli incassi per le periodiche sortite del film ad oltre mezzo secolo
dalla sua comparsa. Le figure della favola dei fratelli Grimm sono umane, ma
l'arguzia disneyana ha modo di manifestarsi nel tratteggio dei nanetti: con la
loro rumorosa tipologia i nani funzionano da contraltare alla sottolineatura
sentimentale che è nel tratto di Biancaneve e nelle visioni fiabesche
degli sfondi naturali, riequilibrando l'eccedenza di languore con cui Disney
esprime, talvolta, nel film il suo amore per la natura.
Il progetto
più ambizioso della filmografia disneyana dette corpo al secondo
lungometraggio animato, Fantasia (1940): serie di episodi dedicati
all'interpretazione di brani di autore diverso, da Bach a Ponchielli, da
Stravinskij a Schubert, da Beethoven a Cajkovskij, ecc., sotto l'autorevole
direzione musicale del maestro Leopold Stokowski. L'idea era viva in Disney fin
dalla prima delle Silly Simphonies, Skeleton Dance, che consisteva
nell'animazione della Danza macabra di Saint Saëns. All'accostamento di
musicisti diversi in Fantasia corrispose una diversità di livello
espressivo. La critica censurò, ad esempio, la figurazione della Sinfonia
pastorale di Beethoven, preferendogli l'umorismo degli elefantini interpreti
allegramente goffi della Danza delle ore di Ponchielli o gli estrosi sconquassi
causati da Topolino come Apprendista stregone di Dukas. Anche l'animazione di
Pinocchio, nello stesso anno, sollevò diverse perplessità, in
quanto Disney sembrò essersi accostato al capolavoro di Collodi con una
partecipazione soltanto esteriore. Pienamente onorati dall'idillica e sorridente
fantasia disneyana sono, invece, i due successivi lungometraggi, Dumbo e Bambi,
tra il 1941 e il 1942, che hanno a protagonisti un elefantino che vola e un
rugiadoso cerbiatto. Lontano parente di Paperino potrebbe essere il pappagallo
José Carioca, nuova invenzione disneyana per il film Saludos amigos
(1942), che con il successivo I tre caballeros si volge all'America Latina per
motivi propagandistici legati alla guerra. Quest'ultimo, come I racconti dello
zio Tom (1946) e Mary Poppins (1964) unisce figure animate e attori in carne ed
ossa.
Dopo alcune incertezze produttive, Disney tornò al grande
successo internazionale con Cenerentola (1950): evidente ripresa del clima
sentimentale di Biancaneve, con il gatto Lucifero e i topolini Gas e Giac a
sostenere le variazioni comiche della storia. I costi sempre più
rilevanti del genere d'animazione consigliarono Disney negli anni Cinquanta a
diradare la produzione dei lungometraggi e a diversificare l'attività.
Tra l'altro, Alice nel paese delle meraviglie e Le avventure di Peter Pan,
rispettivamente del 1951 e del 1953, non ebbero esito troppo felice. Molto
più fortunato fu Lilli e il vagabondo (1955) in cinemascope, una storia
vissuta da cani, con la divertente trovata da far vedere gli uomini dal
ginocchio in giù, cioè a dire: secondo lo sguardo soggettivo degli
animali. Lo sfondo dell'America dei pionieri si sostituisce qui alla natura, cui
Disney riserva una serie di documentari scientifici e didattici. L'ultimo
decennio della vita di Walt Disney si svolse all'insegna dell'incertezza e del
rischio. Nel 1959, La bella addormentata nel bosco fu un ottimo esempio di
ambientazione gotica ma costò oltre sei milioni di dollari. Per contenere
i costi Disney adottò alcune semplificazioni nella tecnica
dell'animazione e abbandonò il mondo delle fiabe aprendosi alla
letteratura avventurosa, con La carica dei 101 (1961) e La spada nella roccia
(1963) ma scontando anche le novità. Il successo pieno tornò con
Il libro della giungla, uscito pochi mesi dopo la morte dell'autore. Senza
Disney, la sua sigla ha fatto segnare qualche punto a favore in Gli aristogatti
(1970) e in Le avventure di Bianca e Bernie (1977). Dopo qualche anno di calma,
il grande successo arrivò di nuovo in casa Disney con film quali Il re
Leone (1994), Pocahontas (1995), Il gobbo di Notre Dame (1996), Tarzan
(1999).
Lo stile realistico o, per così dire, naturalistico (anche
se poetizzato) dei disegni di Disney e dei suoi collaboratori dettò legge
per oltre un quindicennio nel cinema d'animazione hollywoodiano. Proprio dagli
Studi Disney, tuttavia, proviene il suo contraltare. In seguito ad uno sciopero
del 1941, protrattosi per diversi mesi, tre disegnatori e animatori, Dave
Hilberman, Zack Schwartz e Stephen Bosustow, si misero in proprio fondando una
nuova casa di produzione, la UPA (United Productions of America). Bosustow, che
aveva collaborato con Disney per Topolino, Biancaneve e Bambi, ne fu la mente
direttiva. Per oltre un quindicennio la UPA sviluppò una diversa
concezione del disegno animato, ideologica e stilistica. Da un lato, il cinema
d'animazione era visto come campo di sperimentazione grafica e visiva;
dall'altro la UPA condivise il gusto sintetico e filiforme delle immagini
ispirandosi ai disegni di Thurber e Steinberg e al tratto delle vignette
pubblicate su periodici intellettuali come New Yorker e Mad. Il lavoro della UPA
non tanto servì a lanciare nuovi divi (in fondo, l'unico personaggio in
grado di emulare la popolarità di quelli disneyani fu Mister Magoo,
creato da John Hubley nel 1949) quanto a diffondere un diverso gusto espressivo
divenuto attivo in molti disegnatori estranei alla UPA stessa e, perfino, in
certe produzioni di Disney.
Il modello naturalistico disneyano rimase ben
presente alla fantasia dei nuovi disegnatori come Hanna e Barbera, genitori
dell'orsetto Yogi e di Tom e Jerry. Meno presente a quella di Fritz Freleng (il
gatto Silvestro, Speedy Gonzales), Chuck Jones (Wilcoyote e il suo eterno
rivale, lo struzzo Bip-Bip), Walter Lantz (Picchiarello), ecc.
Il dominio
della linea, la geometria delle forme, l'imperativo della sperimentazione
visuale si ritrovano alla base delle invenzioni dell' anglo-canadese Norman
McLaren (1914) che amplia il procedimento di ricerca dalle immagini alla colonna
sonora. Specialmente in Europa, il cinema d'animazione rientra nell'ambito
dell'esperimento d'arte ed è ben lungi dal proporsi la conquista di un
mercato commerciale, com'è accaduto con Disney oltre Atlantico.
Tra
le diverse scuole nazionali, ha notevole risalto quella cecoslovacca, con
l'animazione particolare dei pupazzi, ad opera di Jiri Trinka e Karel Zeman.
Anche l'Italia offre, negli ultimi decenni, una produzione di cinema
d'animazione la cui quantità è sostenuta dalle esigenze della
pubblicità televisiva. Dopo una produzione occasionale, che va dai
pionieri Giovanni Bottini, Carlo e Vittorio Cosso, Arnaldo Ginna, ai primi
autori di lungometraggi come Nino e Toni Pagot (I fratelli Dinamite, 1949),
Anton Gino Domeneghini (La rosa di Bagdad, 1949) e Francesco Maurizio Guido,
detto Gibba (L'ultimo sciuscià, 1947), ecco, sulla fine dei Cinquanta, la
nascita di veri e propri studi di produzione. Intorno al 1960 nasce quello di
Bruno Bozzetto, inventore del personaggio del Signor Rossi, con i lungometraggi
West and Soda (1965), Vip, mio fratello superuomo (1968), Ego (1969), Allegro ma
non troppo (1977) che riprende la formula di Fantasia. Con Bozzetto o con i
fratelli Pagot sono cresciuti diversi autori d'animazione come Osvaldo Cavandoli
e Guido Manuli. Ma, fuori dal rapporto con la pubblicità televisiva, le
cose di più squisita elaborazione cromatica e di più estroso senso
figurativo sono dovute al pittore e scenografo Emanuele Luzzati e al direttore
della fotografia Giulio Giannini che, insieme, hanno firmato opere celebrate
nell'ambito del cinema animato: La gazza ladra, L'italiana in Algeri, Alì
Babà, Pulcinella, Il flauto magico. Isolato, anche se di rilievo, il
lungometraggio Il cavaliere inesistente in cui Pino Zac anima l'originale
letterario di Italo Calvino.
Una simpatica immagine di Topolino
1945: DOPO LA TEMPESTA
Il dato saliente del cinema del dopoguerra
è un'inversione di tendenza nel panorama internazionale. Mentre per il
passato era stata Hollywood ad imporre al mondo i propri modelli spettacolari e
produttivi, a pace ristabilita inizia una fase di arretramento per la
cinematografia USA. Ancora per molti lustri questa farà accettare dal
mercato le proprie leggi. Ma lo star system e i grandi mezzi sono destinati ad
un lento processo di perdita di impatto. Contemporaneamente, cresce l'immagine
delle cinematografie europee, asiatiche e latino-americane. E al concetto di
prodotto si viene sostituendo quello di autore e di scuola: insomma, si assiste
ad un generale recupero di artisticità.
Le Majors sono ora costrette
ad allearsi tra loro per conservare il controllo della distribuzione sui mercati
mondiali. Dovranno, successivamente, per sopravvivere, sviluppare il settore
della produzione di filmati per l'odiato nemico televisivo; e, infine, entrare
nel portafoglio di supercolossi finanziari, perdendo buona parte della propria
identità. Può sembrare paradossale che ciò avvenga quando
l'industria hollywoodiana ha mostrato di cosa sia capace realizzando con Via col
vento il prodotto più importante di tutta la storia del cinema; ma si
tratta di un inarrestabile processo storico, cui gli stessi uomini di Hollywood
contribuiranno quando, sulla fine del decennio, seguiranno il senatore McCarthy
in una insensata caccia agli autori e agli attori di sinistra, provocando fughe
di cervelli e conformistici appiattimenti delle linee. Restato in Europa per non
subire l'inquisizione della commissione McCarthy, Joseph Losey (1909-1985), che
era stato il regista dell'edizione americana del Galileo di Brecht, girò
in Inghilterra i suoi film più significativi: Il servo (1963),
L'incidente (1967), Messaggero d'amore (1971).
Ciononostante, lo slogan di
Hollywood è ancora molto ottimista: The Movies are better than ever,
«I film sono più belli che mai».
La sospensione bellica,
frattanto, fa sì che del fenomeno non si abbiano immediati riscontri. Ci
sono sei anni di film americani da conoscere e Hollywood continua a fare bella
figura. Soltanto dopo il 1945 arrivano in Europa Il mistero del falco (1941) di
John Huston e Casablanca (1942) di Michael Curtiz, con relativa esplosione del
mito Bogart. Gli stessi Via col vento (1939), Ninotchka (1940), Per chi suona la
campana (1943) da Hemingway, vengono proiettati da noi a guerra finita,
analogamente a Quarto potere di Orson Welles, a Furore di Ford, entrambi del
1940, e a Piccole volpi di William Wyler, del 1941. Né i registi USA
perdono improvvisamente lo smalto; anzi proprio l'esperienza del conflitto porta
nelle loro opere una diversa incisività. Alcuni veterani come Henry
Hathaway (Il bacio della morte, Chiamate Nord 0777), Robert Siodmack (La donna
fantasma, I gangsters), Raoul Walsh (Una pallottola per Roy, Strada maestra)
rinverdiscono il filone gangster con una nuova ambiguità nel segnare il
confine tra buoni e cattivi. Ambiguità che diventa il tema portante di Il
tesoro della Sierra Madre e Giungla d'asfalto di Huston. Con I forzati della
gloria e Bastogne, offre un'immagine smitizzata e antieroica della guerra
William Wellman (1896-1975), cui si deve anche un crudo film western, Alba
fatale (1943) che racconta il linciaggio di un uomo innocente. Autori nuovi come
Jules Dassin (Forza bruta, La città nuda, I corsari della strada, I
trafficanti della notte), Edward Dmytryk (L'ombra del passato, Anime ferite,
Odio implacabile), Robert Rossen (Anima e corpo, Tutti gli uomini del re),
Nicholas Ray (La donna del bandito, I bassifondi di San Francisco), Mark Robson
(Il grande campione, Odio) mostrano nei loro thrillers un significativo
interesse verso i risvolti sociali, la denuncia della violenza, il malessere
interiore dei personaggi.
Escono prepotentemente alla luce le due
personalità di maggior spicco del periodo: Elia Kazan e Billy Wilder.
Kazan (n. 1909) divide la sua attività tra cinema e teatro. Fondatore
dell'Actor's Studio, ha alle spalle la partecipazione al Group Theatre i cui
orientamenti di sinistra lo condurranno davanti alla commissione del senatore
McCarthy. Si toglierà dai pasticci denunciando qualche collega e girando
soggetti meno polemici di quelli antecedenti al 1950 (Barriere invisibili,
Pinky, La negra bianca, Bandiera gialla) come Un tram chiamato desiderio, e La
valle dell'Eden, o addirittura Fronte del porto fortemente critico nei confronti
dei sindacati ma sorretto da un suggestivo linguaggio drammatico che il
protagonista, Marlon Brando, sfruttava con non comune aderenza. Wilder (n. 1906)
sigla, invece, due film robusti (La fiamma del peccato, 1944 e Giorni perduti,
1946) prima di sviluppare una carriera straordinariamente felice nell'ambito di
una commedia priva di innocenza. Da Viale del tramonto (1950) a L'appartamento
(1960), da Sabrina (1954) a Irma la dolce (1963), da Quando la moglie è
in vacanza (1955) a Fedora (1978), Wilder rappresenta l'ultimo esponente di una
scuola viennese che passa attraverso Lubitsch e Stroheim.
In generale, la
produzione hollywoodiana denuncia limiti di fantasia e offre poche novità
di risalto. Tra queste va notata una netta evoluzione del genere western che
accoglie nel suo epos fondamentalmente ingenuo e ottimista alcune intrusioni di
problematicità: come il capovolgimento del rapporto razziale in L'amante
indiana (1950) di Delmer Davis, l'umana paura dell'uomo della legge in
Mezzogiorno di fuoco (1952) di Fred Zinnemann, il neoromanticismo intimista de
Il cavaliere della valle solitaria (1953) di George Stevens. A dieci anni dalla
fine della guerra, la voce più fresca di Hollywood sarà quella di
Paddy Chayefsky (1923-1981) che porta sullo schermo testi precedentemente
scritti per la televisione: Marty, Pranzo di nozze, La notte dello scapolo, in
cui si avverte la chiara influenza del neorealismo italiano.
Si può
dire, del resto, che sia stata l'esperienza del neorealismo a dare impulso alla
cinematografia mondiale dopo il 1945. Materialmente, la distruzione dei teatri
di posa, la mancanza di capitali, una generazione di interpreti abituati alle
manierate produzioni del periodo fascista, indirizzarono i nostri registi
migliori a girare dal vero e con attori presi dalla strada vicende ben radicate
nella realtà quotidiana. Ma già nel 1943, Ossessione di Luchino
Visconti aveva anticipato la novità del neorealismo sia pure adattandola
alla personale esperienza di assistente di Renoir sul set di Tony. Il
neorealismo fu l'incontro di alcuni maestri dalla personalità assai
dissimile ma accomunati dal gusto di curvarsi con la macchina da presa sulla
cronaca e la storia italiane di quegli anni: De Sica con la gentilezza poetica
dell'aneddoto umano e il dolente sentimento sociale, Rossellini con il nitore
conoscitivo del linguaggio filmico, Visconti con la complessità e la
ricchezza del narratore per immagini epigono della tradizione culturale borghese
di Proust e di Mann. Il primo (1901-1974), da divo popolare del realismo rosa
cameriniano, si affermò nella regia con una prudente progressione (Teresa
Venerdì, 1940, Un garibaldino al convento, 1942, I bambini ci guardano,
1943, Le porte del cielo, 1944) realizzando tra il 1946 e il 1951, con
l'insostituibile collaborazione di Cesare Zavattini soggettista e sceneggiatore,
una tetralogia intimamente coerente: Sciuscià, sui ragazzi in balia di se
stessi, Ladri di biciclette, sulla giornata di un disoccupato, Miracolo a
Milano, favola di barboni in una città alle soglie del rilancio
industriale, Umberto D. disadorno e toccante ritratto della vita solitaria di un
pensionato, che ha formato il corpus di più limpida commozione poetica
del cinema neorealista. Rossellini (1906-1977) è dei tre il cineasta
puro, quello che fa un tutto unico con la macchina da presa. Il suo approccio
alla realtà è diretto e rivelatore (non per nulla è stato
idolatrato dai registi della nouvelle vague). Dopo l'esordio documentaristico
(La nave bianca, alla scuola del comandante De Robertis) esplode sulla fine del
1944 con Roma città aperta e, un anno dopo, con Paisà che assorbe
e consuma i residui melodrammatici del film precedente in una resa poetica, di
essenziale visività, nei sei episodi che raccontano, dalla Sicilia alla
Valle Padana, le tappe della campagna italiana degli Alleati. Generosa,
instabile, attratta da interessi diversi, l'arte rosselliniana dette frutti
diseguali quando la sua natura visiva venne a misurarsi con ritratti psicologici
(anche per l'incidenza dei rapporti personali con Anna Magnani e Ingrid Bergman)
o diagnosi storiche. Così, Europa 51 è meno persuasivo di Germania
anno zero e Stromboli di Francesco giullare di Dio. Ma nel 1954, con Viaggio in
Italia, Rossellini filma un'opera in anticipo sul gusto di almeno un decennio.
E, nel 1966, convintosi ad occuparsi di filmati didattici per la Tv, il regista
dà un altro capolavoro: La presa di potere di Luigi XIV. Infine,
Visconti, pagato con La terra trema e Bellissima il debito neorealista, si volge
sempre maggiormente ad un mondo di inquiete riflessioni storico-ideologiche e di
smagliante sontuosità figurativa.
Accanto ai maestri, altri autori
di spicco connotano il neorealismo. Renato Castellani (1913-1986) con Sotto il
sole di Roma (1948), è primavera (1949), Due soldi di speranza (1952);
Alberto Lattuada (n. 1914) con Il bandito (1946) e Senza pietà (1948);
Giuseppe De Santis (1917-1997) con Caccia tragica (1947), Riso amaro (1948), Non
c'è pace tra gli ulivi (1950), Roma ore 11 (1952); Eduardo De Filippo
(1900-1984) con Napoli milionaria (1950); Pietro Germi (1914-1974) con
Gioventù perduta (1948), In nome della legge (1949), Il cammino della
speranza (1950); Carlo Lizzani (1922) con Achtung banditi! (1952) e Cronache di
poveri amanti (1954). Ma anche autori di cifra essenzialmente diversa, come
Michelangelo Antonioni (Cronaca di un amore, 1950) e Federico Fellini (Lo
sceicco bianco, 1951, I vitelloni, 1953, e La strada, 1954) hanno qui le loro
radici.
La ritrovata libertà e le possibilità derivate da una
maggiore circolazione internazionale favorirono la conoscenza di cinematografie
poco note, come la messicana (con i film della coppia Emilio Fernandez, regista,
e Gabriel Figueroa, direttore della fotografia: Maria Candelaria, 1944,
Enamorada, 1946, La perla, 1947) e, specialmente, la giapponese che fu capace di
offrire nell'arco di pochi anni, alcuni capolavori: Vita di O Haru, donna
galante (1952) e Racconti della luna pallida dopo la pioggia (1953) di Kenij
Mizoguchi, I figli di Hiroshima (1952) di Kaneto Shindo, il mistico Arpa birmana
(1955) di Kon Ichikawa. Rashomon (1950) è la rivelazione di un grande
autore, Akira Kurosawa. Ma, in generale, tutte le cinematografie nazionali si
arricchiscono di proposte notevoli. A Parigi, nomi nuovi si affacciano alla
ribalta: René Clément, autore di La bataille du rail (1946), forse
il più bel film sulla Resistenza, e Giochi proibiti (1952); Jacques
Becker, che in Casco d'oro (1951) riprenderà il discorso di un realismo
popolare alla Renoir, con due storie vivaci e penetranti: Amore e fortuna (1947)
e Le sedicenni (1949). Claude Autant-Lara realizza il classico Diavolo in corpo
(1947), dal romanzo di Radiguet, ed Henri Georges Clouzot, che ha già
firmato in piena occupazione l'imbarazzante Il corvo (1943), dirige Legittima
difesa (1947) e il discusso Manon (1949). Perfino il veterano Jean Cocteau gira
i suoi due film più interessanti: La bella e la bestia (1946) e Parenti
terribili (1948). E si presenta un esordiente di tutto riguardo, Robert Bresson,
con Il diario di un curato di campagna (1951) intessuto di tempi meditativi e di
disadorna commozione.
Anche in Inghilterra si respira aria nuova. Qui, il
vecchio sogno di sir Alexander Korda di contendere ad Hollywood la supremazia
sui mercati di lingua inglese è raccolto da Arthur Rank che concentra
nelle proprie mani un articolato sistema produttivo costruendo nuovi Studi a
Pinewood. Le cose migliori vengono da David Lean (1908-1991) con Breve incontro
(1946) e due adattamenti da Dickens, Grandi speranze (1946) e Oliver Twist
(1948); da Carol Reed (1906-1976) con Il fuggiasco (1946), Idolo infranto
(1947), Il terzo uomo (1948); e specialmente dalla coppia Michael Powell-Emeric
Pressburger, campioni del racconto fantastico in un prezioso technicolor: Scala
al paradiso, Narciso nero, Scarpette rosse, tra il 1946 e il 1948. E Laurence
Olivier, che nel 1945 aveva diretto uno squillante Enrico V, completa la
trilogia shakespeariana con il severo bianco e nero di un Amleto psicanalitico
(1948) e con il ritorno al colore in Riccardo III, la cui lavorazione si protrae
fino al 1954. Tuttavia, Rank esce sconfitto dalla guerra dei produttori e deve
ridimensionare l'attività. La cinematografia inglese, conservando pur
sempre un estremo decoro professionale, è costretta ad attendere la
rivoluzione del free cinema per rivendicare un'originale
personalità.
Come movimento, il free cinema si impose dopo la
metà degli anni Cinquanta, in stretta connessione con il teatro
«arrabbiato» di John Osborne e compagni. Interpreti della delusione
seguita alla crisi di Suez e al fallimento della politica del premier Eden, sia
l'uno che l'altro alimentano una violenta requisitoria contro l'establishment
della società britannica, le sue plumbee tradizioni e i suoi orgogliosi
ricordi imperiali. Senza qualificare la propria rivolta di un preciso
orientamento ideologico, le opere dei registi free esprimono un'appassionata
contestazione al costume e un'attenzione al mondo popolare e del lavoro sia a
Londra che nei centri industriali della provincia. Curiosamente, quando i film a
soggetto dei registi free cominciarono a circolare, il movimento aveva
già esaurito parte della carica protestataria poiché aveva vissuto
una prima fase di corto e mediometraggi rigorosamente documentari che aveva
impegnato specialmente Lindsay Anderson, Karel Reisz, Tony Richardson e Lorenza
Mazzetti. Il primo lungometraggio free è I giovani arrabbiati (o Ricorda
con rabbia, 1959) di Tony Richardson (1928-1991) dalla commedia di Osborne, cui
seguirono, l'anno dopo, Gli sfasati, ancora da Osborne, e Sapore di miele, e,
nel 1962, Gioventù amore e rabbia. In seguito, fuori del free, Richardson
dirigerà il pregevole Tom Jones (1963) e, in USA, Il caro estinto (1965)
da un romanzo satirico di Evelyn Waugh. Karel Reisz (1926) è forse il
regista più caratteristico del movimento: dal documentario del 1959 Noi
siamo i ragazzi di Lambeth a Sabato sera, domenica mattina (1960), La doppia
vita di Don Craig (1964), Morgan matto da legare (1966). Molto più tardi,
trasferitosi a Hollywood, ha girato un film di successo, La donna del tenente
francese (1981), in cui è avvertibile la mano dello sceneggiatore e
commediografo Harold Pinter. Per parte sua, John Schlesinger (1926) ha mescolato
una certa adesione iniziale al free (Una maniera d'amare, 1962, Billy il
bugiardo, 1963, Darling, 1965, Domenica, maledetta domenica, 1971) con le prove
robuste ma integrate nei parametri produttivi USA di Un uomo da marciapiede
(1969), Il giorno della locusta (1975), Il maratoneta (1976). Critico e
saggista, infine, Lindsay Anderson (1923) ha rappresentato la coscienza teorica
del movimento ed è stato autore di due tra i suoi film più
significativi: Io sono un campione (1963) e Se... (1968).
La stessa
volontà dei colleghi inglesi di opporsi all'uso convenzionale e
commerciale del cinema muove i giovani autori della nouvelle vague, con un
più accentuato interesse per i problemi espressivi del film e le
specificità del suo linguaggio. Il retroterra della nouvelle vague
è intellettuale, fiorito intorno alla rivista parigina Les cahiers du
cinema, negli anni Cinquanta, e all'insegnamento del comune maestro André
Bazin. Godard, Truffaut, Rohmer, Rivette, Chabrol, ecc., prima che registi,
furono critici e saggisti: ammiratori di alcune figure di spicco (Renoir,
Hitchcock, Rossellini), ma anche valorizzatori di robusti artigiani capaci di
fare film vitali fuori dagli schemi della grande produzione. Il loro impegno ha
dotato il cinema di una sensibile dimensione critica e sviluppato l'intento di
arricchire la direzione di un film con la contemporanea riflessione sui suoi
significati. Il cinema dopo la vague ha moltiplicato la sua gamma espressiva. Il
più famoso dei nuovi cineasti, Jean Luc Godard (1930), nonostante sia
caduto gradatamente vittima di un processo involutivo e abbia sottomesso
talvolta il linguaggio alla pura e semplice enunciazione politica, è
riuscito nelle sue opere degli anni Sessanta (Fino all'ultimo respiro, 1960, La
donna è donna, 1961, Questa è la mia vita, 1962, Una donna
sposata, 1964, Il bandito delle 11, 1965, Il maschio e la femmina, 1966, Due o
tre cose che so di lei, 1967) ad istituire una sorta di gnoseologia del cinema
per cui la macchina da presa non filma la realtà ma «scopre»
una sua propria categoria di essa. Il versante estremo della poetica godardiana
è occupato da Jacques Rivette (1928) che in L'amour fou (1968) e Celine
et Julie vont en bateau (1974) è arrivato a non raccontare alcuna storia
affidando alle inquadrature soltanto delle cangianti e vitali testimonianze di
linguaggio. Più sensibile alle ragioni, anche fantastiche, del racconto
cinematografico, François Truffaut (1932-1985) ha tuttavia mostrato, nei
titoli della serie di Antoine Doinel, personale creazione di Jean Pierre
Léraud, le singolari possibilità del film diaristico, con il
protagonista che narra di se stesso ma non nei tempi autobiografici della
memoria. Rivelatosi con alcuni film di sorprendente originalità e di
generosa anarchia (I quattrocento colpi, 1959, Julies et Jim, 1962) Truffaut
è poi venuto maturando uno stile capace di profonde vibrazioni ma sempre
affidato ad un'insolita levità di toni, tanto nelle opere di più
insistito spessore drammatico e letterario (Le due inglesi e il continente,
1971, Adele H, 1975, La camera verde, 1978, La signora della porta accanto,
1982) quando nel racconto direttamente germinato dalla propria esperienza vitale
(Effetto notte, 1973, L'ultimo metro, 1980). Il sottile, risentitissimo segno di
Eric Rohmer (1920) si materializza sullo schermo in un elegante disegno
psicologico, spesso graffiato dal sentimento della solitudine e da una certa
malinconia dell'erotismo nelle due serie dei Racconti morali e dei Proverbi, in
cui emergono La mia notte con Maud (1969), La moglie dell'aviatore e Il bel
matrimonio (1981), Notti di luna piena (1985). Una squisita misura letteraria
contrassegna La marchesa von... (1976) dal racconto di Kleist. Con Le beau Serge
(1958) e I cugini (1959) Claude Chabrol (1930) ha aperto la strada ai suoi
colleghi delle vague e portato in dote al movimento le prime segnalazioni
internazionali, optando in seguito per un cinema più eclettico che non
esclude il racconto poliziesco ma anche la ricostruzione di episodi drammatici e
ambigui della storia francese del Novecento, come Violette Nozière (1978)
e Un affare di donne (1988). Un poco più appartati rispetto agli altri
sono Louis Malle e Alain Resnais. Il primo (1932-1995) autore di opere polemiche
(Les amantes, 1958, Fuoco fatuo, 1963, Cognome e nome: Lacombe Lucien, 1974,
Arrivederci ragazzi, 1987, e, in USA, Pretty Baby, 1980, Atlantic City, 1981);
il secondo (1922) lucido indagatore dei sottili rapporti della memoria con il
tempo in film come Hiroshima mon amour (1959), L'anno scorso a Marienbad (1961),
Muriel, il tempo di un ritorno (1963), Providence (1977), Mon oncle d'Amerique
(1980), in cui un prezioso contrappunto visivo-sonoro si snoda con sinuosa,
ritmica eleganza.
VISCONTI
Pur avendo anticipato il neorealismo con
Ossessione (1943) e offerto, in quest'ambito, la prova straordinaria di La terra
trema (1948), da I malavoglia di Verga, e di Bellissima (1952), la poetica di
Luchino Visconti (1906-1976) allinea accanto all'attenzione per la storia
italiana (Senso, 1954, Il gattopardo, 1963) altri interessi. Per le vicende
nazionali d'oggi, ad esempio (Rocco e i suoi fratelli, 1960, Vaghe stelle
dell'orsa, 1965) ma elaborate alla luce di motivi antropologici, freudiani e
primitivi, nell'ambito familiare. Specialmente, lo ha intrigato la riflessione
sulla crisi e la decadenza della civiltà borghese, colta
nell'accostamento con le opere di importanti scrittori del Novecento: da Proust
(con un progetto irrealizzato su La recherche) a Thomas Mann (Morte a Venezia,
1971) a Camus (Lo straniero, 1967). In La caduta degli dei (1968) e nel
monumentale Ludwig (1973) il regista porta avanti una lettura ambigua e
mortuaria dei destini della Germania. In Gruppo di famiglia in un interno (1974)
si sforza di comprendere le posizioni giovanili post sessantottesche. L'ultimo
film, il dannunziano L'innocente (1976), è stato girato quando Visconti
era già stato colpito nel fisico e non comporta elementi di
rilievo.
BERGMAN
Ingmar Bergman (1918) è l'autore che
raccogliendo l'eredità dei maestri svedesi (da Sjöström a
Stiller, da Sjöberg a Molander) è giunto ad uno dei potenziali
espressivi più ricchi della storia del cinema. Oltre che l'humus delle
saghe nordiche, il mondo poetico bergmaniano accoglie ed elabora alcuni temi
fondamentali della riflessione novecentesca, dall'esistenzialismo al freudismo,
coniugandoli con la tensione religiosa da un lato, e il gusto di rappresentare
concretamente la vita dall'altro. Smagliante uomo di teatro, ha trovato in
Strindberg la guida per esprimere il senso inquieto, interrogativo e turbato
dell'individuo di fronte all'esistenza e alle crisi della propria coscienza.
Direttore del Reale teatro di Stoccolma, ha abbandonato il cinema verso la
metà degli anni Ottanta, conscio probabilmente di non poter esprimersi
meglio di quanto già aveva fatto in una filmografia straordinariamente
numerosa e profonda.
Dapprima sceneggiatore, poi regista di opere
realistiche dalla fine della guerra, intorno agli anni Cinquanta Bergman dirige
un gruppo di film che hanno la passione a motivo centrale: Estate d'amore
(1954), Monika e il desiderio (1952), Una vampata d'amore (1953), Una lezione
d'amore (1954), Sogni di donna (1955). In essi l'intonazione è
naturalistico-psicologica e il tema pare esaurirsi, nella sensibilità del
regista, con la levità ironica di Sorrisi di una notte d'estate che nel
1955 dà a Bergman fama internazionale. Con Il settimo sigillo e La
fontana della vergine, rispettivamente del 1956 e 1959, l'antica favolistica del
Nord offre la materia per due riflessioni sulla morte e sulla vita, mentre Il
posto delle fragole (1957) costituisce un inaspettato capitolo sulla
capacità bergmaniana di assorbire le inquietudini e il pessimismo
esistenziali in un ritratto, malinconico ma affettuoso, di un medico che
ripercorre la propria esistenza con gli occhi smagati della vecchiaia. Comincia
adesso la fase più inquietante ed enigmatica dell'opera bergmaniana,
lungo la doppia interrogazione dell'uomo verso la propria coscienza e verso il
silenzio di Dio: L'occhio del diavolo (1960), Come in uno specchio (1961), Luci
d'inverno (1962), Il silenzio (1963) e i film sul mascheramento del teatro: Il
volto (1958), Persona (1965), Il rito (1969). L'isola di Farö, abituale e
romito rifugio del regista, entra a far parte della topografia ideale
bergmaniana, con un sensibile apporto espressivo. Bergman pare interessato ad
una cinematografia che riesca a concretizzare la vita interiore dell'individuo,
a materializzare l'inespresso. è il caso di L'ora del lupo (1967) e
Passione (1970) con le più esplicite (e meno riuscite) incursioni nel
collettivo di La vergogna (1968).
Gli anni Settanta presentano un nuovo
Bergman: due fallimenti hollywoodiani con L'adultera (1971) e L'uovo di serpente
(1977); un quasi perfetto Sussurri e grida (1972) nell'ambito della narrativa
interiore; infine la scoperta del mezzo televisivo con la penetrante analisi
della coppia di Scene da un matrimonio (1973) e il ritratto dell'inconscio
femminile di Immagine allo specchio (1975).
Gli anni Ottanta infine segnano
l'acme di questo cinema (cui ha fornito un contributo incalcolabile il direttore
della fotografia Sven Nyqust e che non sarebbe pensabile senza la presenza dei
grandi interpreti bergmaniani, da Ingrid Thulin a Max von Sydow da Gunnar
Björnstrand a Liv Ulmann, da Harriet Andersson a Erland Josephson, da Bibi
Andersson a Karl Jalle), sul piano del grandioso affresco narrativo (Fanny e
Alexander) e sul piano della testimonianza pacificata di Bergman con i propri
fantasmi (Dopo la prova).
KUROSAWA
Come il suo più giovane collega e
compatriota, Nagisa Oshima (1932), autore de La cerimonia (1970) e L'impero dei
sensi (1976), Akira Kurosawa (1910-1998) tratta spesso un cinema giapponese
tradizionale alla luce di visioni occidentali. Cioè significa che anche
le sue storie di samurai più classiche, come I sette samurai (1954),
rivelano un'intenzione critica e una conoscenza delle strutture filmiche
statunitensi. Kurosawa (1910) cominciò a lavorare come regista negli anni
della guerra, ispirandosi con crudo realismo alla vita dei quartieri popolari di
Tokyo. è lo stesso sfondo sociale di Yoidore Tenshi (1948), storia di un
gangster tubercolotico, in cui compaiono due interpreti prediletti dal regista:
Takashi Shimura e Toshiro Mifune. Nel 1950, arriva il successo internazionale di
Rashomon, ma la demitizzazione della retorica samurai era stata aperta, cinque
anni avanti, dalla satira di Tora no O.
Ikiru (1952), che racconta di come
un impiegato statale ammalato di cancro dedichi i suoi ultimi mesi di vita alla
realizzazione di un parco giochi per i bambini in un quartiere popolare, apre il
filone intimista di Kurosawa, che continuerà in I sette samurai, con il
suo messaggio sull'inutilità del combattimento e la supremazia
dell'esistenza contadina su quella guerriera, Donzoko (1957), La sfida del
samurai e Sanjuro (1961), per concludersi con le amare e generose esortazioni di
un vecchio medico al suo allievo in Barbarossa (1965).
Di cultura aperta
all'Occidente (Shakespeare, Dostoevskij) e di ideologia marxista, Kurosawa
sembra oscillare dai temi della denuncia sociale e della solidarietà
umana al nichilismo amaro che gli proviene dalla tradizione spirituale
orientale. Anche le opere del suo ultimo periodo di attività rientrano in
un siffatto quadro.
Do-des-ka-den (1970) è un film di bassifondi e
di bambini; Dersu Uzala (1975), realizzato in URSS, esalta il valore positivo
dell'amicizia tra un esploratore e un cacciatore siberiano; Kagemushha (1980)
è un maestoso e policromo affresco sulla vita nipponica medievale,
animato da scene indimenticabili di battaglie e siglato dalla rappresentazione
finale dell'inutilità del potere.
Infine, Ran (1985), lontanamente
riferito a Re Lear (così come Il trono di sangue, 1957, era la versione
di Macbeth), è una disperata riflessione sul dolore, sul destino, e sulla
morte.
LE DIVINE
Nessun altro fenomeno di creazione
fantastica o di esercitazione ludica ha mostrato le proiezioni mitologiche del
cinema. è il cinema che, nella società moderna, ripropone un
sistema magico da sempre esistente nell'immaginario umano: quello delle creature
irreali che concretizzano una loro vita nella realtà degli spettatori.
Ombre o sogni di micidiale esemplarità collettiva, dei e semidei in cui
si incarna la mitologia dei nostri giorni: i divi. Materialmente, si tratta di
un effetto direttamente generato dalle strategie del consenso che il film
implica, come ogni prodotto di massa. Queste strategie furono portate al loro
massimo livello di sofisticazione e di efficacia dallo star system di Hollywood.
Ma psicologi, sociologi e storici del costume hanno cercato alle radici del
divismo motivi più sottili. Ponendo in luce come la spinta fondamentale
sia quella del processo psicoaffettivo tra spettatore e film: cioè
quell'istinto di proiezione-identificazione che si sviluppa nello spettatore
verso le vicende dello schermo e i loro interpreti-personaggi. Istinto
particolarmente stimolato dalle condizioni della sala cinematografica, con lo
spettatore al buio come durante il sonno e lo schermo fortemente illuminato come
i sogni che facciamo dormendo.
Sia come sia, il fenomeno è generale.
Lo spettatore medio, di solito, ricorda di un film l'interprete principale,
l'eroe, più che il regista che ne è l'autore. E, all'opposto,
molti film sono pensati non per raccontare una storia autosufficiente, ma per
consentire al divo di aggiungere un capitolo alla propria storia personale.
Quando, nel 1930, la Metro decise che anche Greta Garbo doveva convertirsi al
sonoro, il suo Anna Christie fu presentato con uno slogan che alludeva alla diva
e non al film o alla novità della tecnica cinematografica: - La Garbo
parla! - E, quasi dieci anni dopo Ninotchka che segnava una svolta comica nella
recitazione della diva fu del pari propagandato con lo slogan: - La Garbo ride!
-. Il mescolamento dei ruoli è sintomatico. Le star scendono nel mondo
dei comuni spettatori, ma restano star così come gli dei scendevano
talvolta dall'Olimpo, mascherandosi da mortali ma restando dei. Le ragioni
dell'imporsi di queste divinità moderne paiono alquanto misteriose. La
bravura non rientra sempre fra di esse. Assai più importanti sono il
fascino personale, il carismatico magnetismo amoroso, la fotogenia. I massimi
livelli divistici, solitamente, sono quelli passionali: oggetti del desiderio
maschile e dell'autoidentificazione femminile. O viceversa. Ma la storia del
cinema insegna che l'Olimpo hollywoodiano è più popolato di Divine
che di Divini.
Soltanto James Dean è diventato un simbolo e un mito
a prezzo di un destino di autodistruzione. Nessun altro attore ha raggiunto
livelli di culto paragonabili a quelli di una Garbo o di una Marlene Dietrich.
Greta Garbo (Greta Lovisa Gustafsson, 1905) è giunta ad integrare il
proprio mito con quello stesso del cinema. Sacerdotessa dell'amore e della
passione, ma, forse, ancor più sacerdotessa della sofferenza dell'amore,
Greta ha celebrato il proprio rito, nei quindici anni del lavoro hollywoodiano,
in 22 film (gli ultimi due, Ninotchka e Non tradirmi con me, del 1939 e 1941
rispettivamente, costituiscono soltanto due anticipazioni del ritiro) che sono
altrettante occasioni di drammi dolenti e appassionati: privati, storici,
letterari, aristocratici borghesi, popolari, non importa. Da La carne e il
diavolo (1927) a Il bacio (1929) a La cortigiana (1931), da Regina Cristina
(1933) a Maria Walenska (1937), da Mata Hari (1932) a Anna Karenina (1935) a
Margherita Gauthier (1936), ecc., è sempre l'identico volto assorto e
remoto, con un'ombra di dolente mestizia nello sguardo e in tutta la persona il
vibrare di una qualità d'amore altero e, per così dire,
appassionatamente spirituale, a rinnovare un personalissimo phatos per le platee
di tutto il mondo: gli occhi sempre puntati, al di la dell'uomo amato, verso un
punto d'infinito, quasi per la memoria dei ghiacciati crepuscoli svedesi, della
Stoccolma dove Greta era nata e Max Stiller l'aveva creata attrice nel 1924, in
La leggenda di Costa Berling, e Pabst ne aveva intuito la natura dirigendola,
l'anno dopo, in L'ammaliatrice.
Anche Marlene Dietrich (Maria Maddalene
Dietrich, 1901) ebbe un Pigmalione nel regista Joseph von Sternberg, che, dopo
averla vista a Berlino nella commedia musicale Zwei Kravatten di Georg Kaiser,
ne fece la dea del desiderio.
Prima, insolente e carnale, innocente come un
accadimento della natura e, insieme, grevemente maliziosa, con le calze nere e
le cosce bianche, mentre canta con la voce roca stando a cavalcioni di una
sedia, regina di un cabaret in cui si indovinano, tra le volute di fumo, gli
odori della birra e del sudore, indimenticabile Lola-Lola in Angelo Azzurro
(1930).
Poi, dopo la chiamata ad Hollywood e ricordandosi della sua cultura
di ebreo viennese, assottigliandole il volto nella promessa di peccato degli
zigomi marcati e della bocca sensuale che la luce beffarda dello sguardo rendeva
irrealizzabile. E furono i sei film che, dal 1930 al 1935, resero Marlene il
simbolo erotico dell'inconscio, del desiderio sublimato nel sommerso delle
platee, inconfessabile e irraggiungibile, incastonato in contesti stilistici di
un barocco acceso e sfrenato, di una figuratività delirante e vagamente
mortuaria: da Marocco a Disonorata, da Shanghai Express a Venere bionda, da
L'imperatrice Caterina a Capriccio spagnolo.
Certo, ogni Divina ha il suo
tempo, incarna le pulsioni segrete della sua età. Così, l'erotismo
rappresentato da Marilyn Monroe (Norma Jean Baker, 1926-1962) è
infinitamente più libero e quotidiano, solare e disinibito.
La sua
carica erotica era talmente autentica da rivelarsi anche nei goffi
abbigliamenti, volgarmente colorati, di Niagara (1953). Marylin è stata
un sex symbol esplosivo, ma anche tenero, ingenuo, sinceramente vitale.
Ha
rappresentato il sex appeal della ragazza della porta accanto in Quando la
moglie è in vacanza (1955) e quello della ragazza di palcoscenico in A
qualcuno piace caldo (1959) e in Facciamo l'amore (1960); il sex appeal della
ragazza decisa di La magnifica preda (1954) e quello della ragazza confusa in
Fermata d'autobus (1956) il sex appeal candido de Il principe e la ballerina
(1957) e quello vissuto de Gli spostati (1961). Il tempo di Marilyn era
così diverso da infrangere la regola aurea del divismo
sull'inconciliabilità della vita privata con l'adorazione
pubblica.
Greta Garbo ha sempre difeso ferocemente la propria privacy,
anche dopo il ritiro che fece epoca, nascondendo addirittura il volto dietro
grossi occhiali scuri. Quasi nessuno sapeva che Marlene andò ad Hollywood
con un marito, cineasta anche lui, ed una figlia. Le vicissitudini private
guastarono la carriera divistica di attrici molto bene avviate come Ingrid
Bergmann e, specialmente, Rita Hayworth, l'atomica del sesso, che aveva avuto il
(discutibile) privilegio di dare il nome del personaggio di un proprio film
(Gilda, 1945) alla bomba atomica. Le burrascose e infelici vicende sentimentali,
invece, non furono mai d'ostacolo alla divinizzazione di Marilyn: pareva
naturale che avesse guai, tutti vi sublimavamo i propri.
Ma come ha un
tempo preciso, il divismo per durare oltre di quello deve saper rinunciare
tempestivamente a se stesso. Confinandosi nel passato, riesce a continuare a
vivere nella memoria del futuro. Marlene per ribadire l'eternità del suo
mito, scelse la strada dell'ironia.
Fu Ernst Lubitsch a riciclarla nella
commedia sofisticata (con Desiderio e Angelo, tra il 1936 e il 1937), genere in
cui dette altre divertenti prove di autoparodia: L'ammaliatrice e Partita
d'azzardo, 1940, Scandalo internazionale 1948; quindi, tornata soltanto attrice,
è comparsa sullo schermo fino a Gigolò, 1979, alternandosi nei
recital di canzoni in teatro. Con Ninotchka a Lubitsch non riuscì di
duplicare l'operazione nei confronti della Garbo e Greta scelse il ritiro
definitivo. A Marilyn, la clausola finale è stata imposta dal destino
avverso. Un poco come era capitato nel 1937 a Jean Harlow: che non è
sicuro fosse una autentica Divina. Probabilmente era soltanto una ragazza
d'aspetto sensuale, con i capelli platinati, che non si curava - anzi - di
nascondere le pregevoli forme e di temperare il modo di esprimersi. Ma
morì a 26 anni, mentre girava Saratoga. Fu sostituita nelle ultime
inquadrature da una giovanissima Lana Turner, ripresa di spalle e in campo
lungo. Ed entrò nell'Olimpo delle Stelle.
Marlene Dietrich
LA DENUNCIA E LA PROTESTA
La lontana impronta del neorealismo e il
suo uso del film come strumento di discussione civile e sociale sono calcolabili
nelle matrici dell'orientamento di denuncia e di protesta che, dalla fine dei
Cinquanta in avanti, si ritrovano in molta parte della cinematografia mondiale.
Il fenomeno ha maggior continuità nel cinema italiano dove il referente
realistico è presente anche in quella che può considerarsi la
conseguenza minimale e più spettacolarizzata del neorealismo: la
cosiddetta «commedia all'italiana», in cui la rappresentazione critica
della vita nazionale è svolta in termini di comicità e di satira,
con il caratterizzante apporto interpretativo di alcuni attori di spicco:
Alberto Sordi (regista egli stesso), Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino
Manfredi. Del resto, gli autori più significativi della commedia
all'italiana nascono tutti in pieno clima neorealista. Da Luigi Comencini (n.
1916), esordiente nel 1946 con il documentario Bambini in città, che
anticipò il nuovo filone con Pane, amore e fantasia (1953) contribuendovi
quindi con Tutti a casa (1960) e L'ingorgo (1978) a Dino Risi (n. 1916),
anch'egli autore di documentari neorealisti (Barboni, 1946, Cortili, 1948),
maestro del genere con Una vita difficile, I mostri, Il sorpasso, tra il 1961 e
il 1963; da Luigi Zampa (1905-1991) rievocatore in toni satirico-grotteschi del
fascismo in Anni difficili (1948), Anni facili (1953), L'arte di arrangiarsi
(1955), Anni ruggenti (1962), oltre che derisore di certe malformazioni del
costume (n vigile, 1960, Il medico della mutua, 1968) a Mario Monicelli (1915)
con I soliti ignoti (1958) e Guardia e ladri (1951); da Pietro Germi (1914-1974)
con Divorzio all'italiana (1961), Sedotta e abbandonata (1964), Signore e
signori (1965), Alfredo, Alfredo (1972), a Ettore Scola (n. 1931): Se permette
parliamo di donne (1964), La congiuntura (1965), C'eravamo tanto amati (1974),
Brutti, sporchi e cattivi (1976). Tutti (o quasi) questi autori hanno
contemporaneamente all'attivo opere di chiara impronta realistica: Zampa
(Processo alla città), Germi (Il ferroviere e L'uomo di paglia),
Comencini (La ragazza di Bube, Voltati Eugenio), Monicelli (I compagni, La
grande guerra, Romanzo popolare, Un borghese piccolo piccolo, Speriamo che sia
femmina), Risi (Profumo di donna, Anima persa), Scola (Il commissario Pepe, Una
giornata particolare, La famiglia, Concorrenza sleale).
Un filo diretto tra
film di denuncia e neorealismo si coglie pienamente nella filmografia di
Francesco Rosi (n. 1922), già assistente di Visconti per La terra trema e
Bellissima e titolare in proprio di un impegno radicato nei problemi, generali e
particolari, della vita italiana. Impegno presente fin dal film d'esordio, La
sfida (1958), che affrontava una vicenda di camorra con il risalto drammatico
del cinema USA. Rosi continuò il discorso con I magliari (1959) e attinse
il massimo risultato nel civile risentimento di Salvatore Giuliano (1961) e Le
mani sulla città (1963): coraggiosa testimonianza sulle collusioni nella
speculazione edilizia a Napoli. Ancora forti accenti di polemica pacifista in
Uomini contro (1970); quindi una sorta di inchiesta dai risvolti inquietanti
sulla fine misteriosa del fondatore dell'Eni: Il caso Mattei (1972). Infine, la
trasposizione in immagini di tre romanzi dai contenuti imbarazzanti, accomunati
da un forte spirito meridionalista: Cadaveri eccellenti (1976) da Il contesto di
Sciascia, Cristo si è fermato a Eboli (1979) dall'opera omonima di Carlo
Levi, Tre fratelli (1981) da un testo di Platonov adattato alla situazione
italiana degli anni di piombo. Autore aggressivo e provocatorio, Elio Petri
(1929-1981) ha mirato nei suoi film a fare esplodere le situazioni
contraddittorie di anni incerti della vita italiana. Particolarmente, Indagine
su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) denunciava le deviazioni
di un commissario di polizia ai tempi della strage milanese di piazza Fontana e
del caso Calabresi; La classe operaia va in paradiso (1971) offriva il ritratto
di un metallurgico dimentico dei problemi della fabbrica e conquistato
dall'integrazione consumistica; La proprietà non è più un
furto (1973) prendeva a bersaglio l'incertezza ideologica della sinistra. Infine
Todo modo (1976), nell'agghiacciante apologo di una strage di uomini politici,
acquistava un sapore profetico nei confronti dell'assassinio dell'onorevole Aldo
Moro. Denuncia civile anche nei film di Damiano Damiani (1922): Confessione di
un commissario di polizia al procuratore della repubblica (1971), L'istruttoria
è chiusa: dimentichi! (1975), Perché si uccide un magistrato
(1976). E denuncia politico-militare in La battaglia di Algeri, di Gillo
Pontecorvo (n. 1919), sulla repressione francese in
Algeria.
Particolarmente intrisi di violenza i film-denuncia di Marco
Bellocchio (n. 1939), Nel nome del padre (1971), e Sbatti il mostro in prima
pagina (1976), rispettivamente sulla rigida educazione religiosa e il malinteso
scandalismo giornalistico. Ma il nome di Bellocchio è legato specialmente
a I pugni in tasca (1965): capostipite di tutte le opere sulla rivolta giovanile
cui dette una appassionata testimonianza anche l'Antonioni di Zabriskie Point
(1970). Apocalittica e irrimediabile, anche se spesso espressa in termini
clamorosi di grottesco, è l'angosciata visione di Marco Ferreri
(1928-1997) il cui cinema dilata il sarcastico quadro sociale di partenza e le
sue stravolte e irridenti metafore sessuali (L'ape regina, 1963, La donna
scimmia, 1964, Marcia nuziale, 1966, La grande abbuffata, 1969, I love you,
1986, La carne, 1991) fino alla denuncia dell'impossibilità di
sopravvivenza dell'individuo, del suo suicidio dentro il sistema borghese:
Dillinger è morto (1969), Il seme dell'uomo (1970), L'ultima donna
(1976), Ciao maschio (1978). Una posizione più complessa e personale
è quella sviluppata da Pier Paolo Pasolini (1922-1975): anch'egli
irriducibile contestatore di una società abietta e ciecamente immolata
sull'altare del consumismo. Alla società consumistica Pasolini oppone
l'istintiva salute e la morale della libertà variamente presenti tanto
nel mondo elementare del sottoproletariato romano quanto nel sostrato primitivo
e barbarico, con la sua innocenza, delle società arcaiche terzomondiste.
Dalle opere di Pasolini, saggista, narratore, sceneggiatore prima che regista,
emerge un singolare (e non sempre comprensibile) cocktail di radici contadine,
nostalgie religiose, impegno criticamente maxista, neoromantica aspirazione alla
libertà di costume. I suoi film sono diseguali ma sempre stracolmi di
intelligenza; Accattone (1961), opera d'esordio, riesce a coagulare dentro una
squallida vicenda borgatara il senso di un'incombente ineluttabilità da
tragedia greca. Con Il vangelo secondo Matteo (1964), probabilmente il suo
capolavoro, il messaggio di un Cristo umano e degradato è affidato ad un
sapiente riferimento figurativo ai maestri della pittura italiana tra Medio Evo
e Rinascimento. Uccellacci e uccellini (1966) è un apologo profondamente
ma godibilmente stilizzato nella presenza degli interpreti (un grande
Totò e Ninetto Davoli) sulla crisi delle ideologie e del marxismo.
Teorema (1968), Porcile (1969), Medea (1970), chiamano in causa il disfacimento
borghese che, dopo la parentesi più possibilista della cosiddetta
«Trilogia della vita», (Decameron, Racconti di Canterbury, Fiore delle
Mille e una notte, tra il 1971 e il 1974), riceverà l'estremo suggello
mortuario di Salò: le 120 giornate di Sodoma (1975), poco avanti la
tragica fine del regista. Sensibilmente influenzato dal neorealismo è
stato il movimento del cinema novo brasiliano affermatosi nei primi anni
Sessanta come una presa di coscienza della miseria e dell'ingiustizia sociale
che affliggevano il Paese. Collaborando a Barravento (1961) e dirigendo Vidas
secas (1963), Nelson Pereira Dos Santos (n. 1929) può dirsene il
fondatore, anche se il suo esponente più rappresentativo è Glauber
Rocha (1938-1981) con una serie di film intrecciati di denuncia sociale,
polemica ideologica e sentimento poetico: Il dio nero e il diavolo biondo
(1964), Terra in trance (1967), Antonio das mortes (1969) Il leone a sette teste
(1970), L'età della terra (1980).
La denuncia che sta a cuore a
molti autori del nuovo cinema tedesco è quella del rapporto della
Germania odierna con il proprio passato, coniugata con una inquieta riflessione
critica sulla rimozione di esso; rimozione che può consentire il recupero
della violenza, dell'intolleranza dell'arroganza del potere, all'interno delle
soddisfatte strutture del benessere economico. è una forma di neonazismo
sommerso che autorizza il rigetto ufficiale di istanze individuali e collettive
nei confronti di problematiche imbarazzanti come l'emancipazione femminile, la
libertà intellettuale, la convivenza con gli immigrati e così via.
Il più scientifico nell'analizzare la fenomenologia neonazista
collocandola entro il contesto dell'intera cultura germanica, miti e dottrine
irrazionalistiche compresi, è Hans-Jürgen Syberberg (n. 1935), in
origine documentarista televisivo, che ha sviluppato la propria ricerca
attraverso film dedicati a Wagner, Ludwig di Baviera, Karl May e, finalmente,
Hitler (1977), secondo un metodo che assembla materiali storici e contemporanei
con rigoroso taglio figurativo. L'analisi storica di Syberberg ha ricevuto un
compimento più creativo nella fluviale trasposizione cinematografica del
Parsifal (1982). Decisamente impegnato sul versante della denuncia contemporanea
è Alexander Kluge (n. 1932) che ha affrontato la questione femminile in
La ragazza senza storia (1966) e Occupazioni occasionali di una schiava (1974),
il problema dei rapporti tra artista e società in Artisti sotto la tenda
del circo: perplessi (1968), la sopraffazione dell'individuo nei meccanismi del
neocapitalismo industriale in Ferdinando il duro (1976). Insieme ad altri
colleghi, Kluge ha partecipato alla realizzazione dell'inquietante film a
episodi Germania d'autunno (1978) e ha ripreso il tema della coscienza nazionale
in Die Patriotin (1979). Un'interessante testimonianza sull'alienazione degli
odierni cineasti tedeschi, espressa con efficace originalità linguistica,
sta nei film di Helma Sanders-Brahms (n. 1940): Sotto il selciato c'è la
spiaggia (1975), Le nozze di Shirin (1976), Germania pallida madre (1980);
mentre l'identica preoccupazione, calata in situazioni femminili di
responsabilità anche politica, è riscontrabile nelle opere di
Margarethe von Trotta (n. 1942): Il caso Katharina Blum (1975), Anni di piombo
(1981), Lucida follia (1983), Rosa (1985). Più individuale e contrastato
l'impegno critico di Reiner Werner Fassbinder (1946-1982), il più
geniale, prolifico, nevrotico autore del nuovo cinema tedesco, impegno che
affiora talvolta dall'ossessiva visione fassbinderiana dell'individuo vittima
costante dell'altrui violenza. Tuttavia, il regista ha esplicitamente affrontato
il tema sociale e politico del terrorismo in La terza generazione (1979); ed ha
costretto un crudo spaccato di vita tedesca nel mosaico di film come Tutti gli
altri si chiamano Alì (1974), Il diritto del più forte (1975), Il
matrimonio di Maria Braun (1979) Lili Marleen (1981), Veronika Voss (1981). Il
malessere di Volker Schlondorff (n. 1939) si riveste di accenti ampiamente
metaforici nell'apologo surreale de Il tamburo di latta (1979), da un romanzo di
Günther Grass, in cui si confermano le inclinazioni letterarie del regista
che hanno prodotto, nel 1966, la versione per lo schermo de I turbamenti del
giovane Törless e, nel 1984, quella di Un amore di Swann.
In un
panorama come quello del cinema statunitense che, dagli anni Settanta, tende ad
estremizzare il fenomeno della spettacolarizzazione, ricorrendo alle forzature
dei film catastrofici (come Lo squalo o L'inferno di cristallo) e agli orrifici
soggetti sovrannaturali (tipo L'esorcista), oppure si affida alla manipolazione
tecnologica di vecchi generi inventando il western e il thriller spaziale
(Guerre stellari e Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977, I predatori
dell'arca perduta, 1981, Blade Runner, 1983), le prospettive della denuncia e
delle protesta si identificano con le aspirazioni più vitali di una
produzione pur costretta a fare i conti con la lievitazione dei costi e una
pesante massificazione del gusto.
Prospettive, del resto, che trovano
diretta ascendenza nello spirito di critica civile ben vivo negli anni
antecedenti il maccarthismo. Ora, a rappresentare l'esasperato malessere di una
società sono forme radicali di una miscela esplosiva in cui entrano
fattori diversi: dalla cultura hippy alla violenta rivolta giovanile al deciso
rifiuto dell'avventura in Vietnam. Esiste una certa continuità nel filone
della critica civile se un regista come Richard Brooks (1912-1992) tratta in
L'ultima minaccia (1952) il problema della libertà di stampa e in Il seme
della violenza (1955) quello delle bande giovanili. La guerra di Corea non
è ancora un ricordo lontano che giungono da Hollywood due potenti film
pacifisti: Prima linea (1956) di Robert Aldrich e Orizzonti di gloria (1957) di
Stanley Kubrick. Nel 1959, con La parola ai giurati, Sidney Lumet traccia un
crudo ritratto della media borghesia yankee; e, nel 1960, un regista
indipendente, John Cassavetes (1929-1986) compila in Ombre una poetica denuncia
del problema nero. Nel 1964, Kubrick con il mordente grottesco del fantapolitico
Il dottor Stranamore richiama l'attenzione sui pericoli distruttivi della
politica nucleare dell'età di Eisenhower. Le contraddizioni e le violenze
che si annidano sotto il modello sociale e civile statunitense vengono
variamente affrontati in La caccia (1966) di Arthur Penn, M.A.S.H. (1970) di
Robert Altman, Taking Off (1971) di Milos Forman, Come eravamo (1973) di Sidney
Pollack, La conversazione (1974), di Francis Ford Coppola, Qualcuno volò
sul nido del cuculo (1975) ancora di Forman, Tutti gli uomini del presidente
(1976) di Alan J. Pakula, Harlan Country (1976) di Barbara Kopple, Quinto potere
(1976) di Lumet, Oltre il giardino (1979) di Hal Ashby, Non si uccidono
così anche i cavalli (1979), ancora di Pollack, Missing (1982), di
Costa-Gavras.
Perfino il musical si responsabilizza in senso sociale e
politico: da West Side Story (1961) a Cabaret (1972) a Hair (1979).
Contemporaneamente, la rivolta giovanile svaria dalla contestazione pacifica dei
ragazzi dei fiori (Alice's Restaurant, 1969, di Penn, Questa terra è la
mia terra, 1976, di Ashby, oltre alla rilettura della leggenda di Bonny e Clyde,
ad opera di Penn nel 1967) al rifiuto dell'integrazione sociale (Il laureato,
1967, di Mike Nichols, Cinque pezzi facili, 1970, di Bob Rafelson) fino alla
rivolta globale. Questa, recuperando il mito di James Dean (1931-1956) e
l'esperienza letteraria di Jack Kerouac e della Beat Generation, si esprime
nell'anarchia esistenziale di Easy Riders (1969) di Dennis Hopper (e della sua
versione al femminile: Non torno a casa stasera, 1969, di Coppola) esplodendo
nella parossistica violenza delle storie on the road, «sulla strada»:
I selvaggi (1966) di Corman, Punto zero (1971) di Monte Hellman, La rabbia
giovane (1973), di Terrence Malick. Giunge poi fino all'esorcizzazione del
Vietnam in Tornando a casa (1978) di Ashby, Il cacciatore (1978) di Cimino,
Apocalypse Now (1979), di Coppola e a quella forma di autopunizione, forse
freudiana, che è la ferocia dilagante in certi film di Sam Peckinpah
(1926-1984): da Mucchio selvaggio (1963) a Cane di paglia
(1971).
IL CINEMA GUARDA SE STESSO
Col tempo, anche sul piano organizzativo
Hollywood è apparsa condannata al ridimensionamento del proprio mito.
È New York che le si è sostituita in parte come luogo privilegiato
del nuovo cinema USA. Per esempio, con la produzione underground che è,
insieme, avanguardia e rifiuto borghese. Questo è stato il regno di Andy
Warhol (1927-1987), esponente di punta della pop art, e della sua Factory. Per
Wahrol il cinema deve essere casuale, non preparato: davanti alla macchina da
presa immobile, gli attori improvvisano le varie azioni raccontando
esclusivamente il proprio comportamento. Seguendo questo sistema, nel 1968, con
Lonesome cow-boy, Warhol, che ha già realizzato diversi cortometraggi
singolari, dirige una sorprendente satira del genere western. Alla Factory
lavora anche Paul Morrissey (n. 1939) i cui film, gremiti di sesso e di
materiali degradati, sono gli unici dell'underground a essere stati distribuiti
nei circuiti normali: Flash (1969), Trash: i rifiuti di New York (1970), Calore
(1979).
Il panorama della produzione cinematografica trova, ora,
riferimenti in tutto il mondo. Dalla Francia di Robert Bresson, Bernard
Tavernier e Agnes Varda, alla Svezia di Ingmar Bergman; dal Giappone di Nagisa
Oshima al Portogallo di Manuel de Oliveira; dalla Grecia di Theo Anghelopoulos
all'Australia di Bruce Beresford e Peter Weir, dall'Inghilterra di Ken Russell
all'Italia dei fratelli Taviani, Ermanno Olmi e Bernardo Bertolucci. Si
moltiplicano le coproduzioni tra cinematografie diverse. Diversi registi dei
Paesi dell'Est hanno cercato, negli anni della repressione politica,
un'accettabile libertà d'espressione sul mercato internazionale, come i
polacchi Roman Polanski, Andrej Wajda, Krysztof Zanussi e l'ungherese Miklos
Jancso. Nel frattempo, il lungo cammino del disgelo nell'ex Unione
Sovietica era passato dal precedente crusceviano di Grigorij Čuchraj (n.
1927), autore, tra il 1957 e il 1961, del trittico Il quarantunesimo, Ballata di
un soldato e Cieli puliti, alla riflessione lirico-filosofica di Andrej
Tarkovskij (1932-1987): Andrej Rublev (1965), Lo specchio (1975), Stalker
(1979), Nostalgia (1983), Sacrificio (1986).
Affiora dovunque una comune
tendenza a fare del cinema che trae da se stesso la propria ispirazione.
È sintomatico il caso di Sergio Leone (1929-1988), da cui discende il
filone maccheronico del «western-spaghetti», ma le cui elaborazioni
personali del genere possiedono un potenziale metaforico di ritualità e
di nero sarcasmo (non per nulla Per un pugno di dollari occhieggia Kurosawa) e
palesano una disinibita rilettura di moduli e stilemi. Dal 1964 al 1971 Leone
dirige quattro western italiani di grosso successo: oltre il citato Per un pugno
di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto e il cattivo,
Giù la testa. Il suo reale interesse a fare «cinema sul cinema»
è anche meglio riscontrabile nelle due celebrazioni di C'era una volta il
west (1968) e C'era una volta in America (1983). La prospettiva
metacinematografica discende alla lontana da certi postulati della nouvelle
vague e Truffaut ne aveva dato un'anticipazione in Effetto notte. In USA si sono
avute esperienze nell'ambito del film-gangster: Il lungo addio (1973) di Altman,
Chinatown (1974) di Polanski, L'occhio privato (1977) di Robert Benton, fino al
più significativo di tutti: Hammett (1982) di Wim Wenders (n. 1945), in
cui l'inventore del poliziesco hard boiled (dall'inglese hard = «duro»
e boiled «bollito» e quindi «bollito fino a diventare duro»,
in senso figurativo «duro», «aspro», «teso»).
Dashiell Hammett, figura al centro di uno dei suoi tipici intrighi, in un gioco
di sottile mimesi stilistica tra Wenders e il genere «nero» della
Hollywood anni Trenta e Quaranta. Wim Wenders (n. 1945), del resto, è tra
i nuovi autori tedeschi quello che ha risentito maggiormente della fascinazione
hollywoodiana e lo ha mostrato in opere come L'amico americano (1977), ispirato
ad un romanzo della specialista in suspense Patricia Highsmith, Lo stato delle
cose (1982), altra riflessione sul cinema e sull'importanza della storia da
raccontare in un film, Paris-Texas (1984), il suo più famoso, che
racconta un intreccio di solitudini dentro una vicenda on the road. All'agonia
del suo amico e maestro Nicholas Ray, Wenders ha dedicato la forte testimonianza
di Lampi sull'acqua (1981). Sempre di Wenders ricordiamo Alice nelle
città (1973), Il cielo sopra Berlino (1987), Fino alla fine del mondo
(1991), Lisbon Story (1995), Buena Vista Social Club (1998). Un altro cineasta
tedesco che si avvicina talvolta al «cinema sul cinema» è
Werner Herzog (n. 1942), tuttavia privilegiando la rivisitazione del periodo
espressionista (in L'enigma di Kaspar Hauser, 1975, e La ballata di Strozek,
1977). Accanto a realizzazioni di intenso sapore romantico (Aguirre, furore di
Dio, 1973, Fitzcarraldo, 1982), Herzog ha dedicato a Murnau un significativo
omaggio in Nosferatu, il principe della notte (1978).
La posizione che
ricalca più da vicino quella della vague la ritroviamo, in USA, in Peter
Bogdanovich (n. 1939): critico, saggista, autore di lunghe interviste ai registi
preferiti e, personalmente, epigono del loro linguaggio con la risoluta
fedeltà del cineamatore. Nel 1971, con L'ultimo spettacolo, Bogdanovich
ha dato un robusto ritratto della provincia americana anni Cinquanta; successive
incursioni nei canonici generi hollywoodiani (Ma papà ti manda sola?,
1972, Paper Moon, 1973, Vecchia America, 1976) hanno mostrato livelli diversi.
Ma la sua genialità rivisitatrice si affida a tre eccitanti esercitazioni
stilistiche: Targets (1967) agghiacciante horror film tipo anni Trenta, Saint
Jack (1979), sensibile riscrittura del linguaggio fordiano, E tutti risero
(1981), seducente contaminazione tra melo alla Casablanca e commedia
sofisticata.
Ma dove il «cinema sul cinema» attinge le massime
possibilità è nell'intelligenza dei due comici più popolari
degli anni Settanta e Ottanta: Mel Brooks e Woody Allen, entrambi esponenti
dell'umorismo intellettuale ebraico, tra Manhattan e il Village, che ha per
referente la rivista New Yorker. Brooks (n. 1926) è un irriverente
distruttore del cinema hollywoodiano che affronta nei suoi generi tradizionali
(musical e western) con la metodica ferocia e insensatezza che fu dei fratelli
Marx in Per favore non toccate le vecchiette (1967), Mezzogiorno e mezzo di
fuoco (1974), o ancora in Balle spaziali (1987) e Robin Hood – Un uomo in
calzamaglia (1993). Altre volte (Frankenstein junior, 1974, Essere o non essere,
1985, Dracula morto e contento, 1995) riscrive film del passato mutandone il
senso. Il suo gioco più spericolato lo troviamo in L'ultima follia di Mel
Brooks (1976), film girato in bianco e nero e muto, in cui, anche come
interprete, Brooks recita il de profundis a Hollywood.
Per contro, Woody
Allen (n. 1935) si riconosce seriamente nell'immagine cinematografica e ne
accetta le banalità prendendosene gioco o mostrando come sia possibile
riscattare gli stereotipi nell'intelligenza critica. Soggettista e interprete,
Allen si volge alla demitizzazione di Bogart in Provaci ancora Sam (1972, regia
di Herbert Ross). In proprio, cerca dapprima uno sbocco psicanalitico in Io e
Annie (1977) e in Interiors (1978) con discusse reminiscenze bergmaniane. Il suo
approccio alla struttura dei generi hollywoodiani fa segnare un primo
capolavoro, Manhattan (1979), che è un musical condotto attraverso le
canzoni di Gerswhin in un rapporto capovolto con la parte recitata. Da Zelig
(1983) vertiginoso gioco di marchingegni tecnici, a Broadway Danny Rose (1984)
alla Rosa purpurea del Cairo (1985) Allen traccia un proprio percorso attraverso
il mondo sentimentale e strutturale chapliniano; giungendo al suo assoluto
prosciugamento mediante l'intervento ironico del relativismo pirandelliano.
Anche il teatro entra nella curiosità alleniana. E, da Hannah e le
sorelle (1984), a September (1987), il regista compie una gustosa contaminazione
facendo reagire Freud con il trattamento dei tormentati climi cechoviani. Ormai,
la comicità del primo Allen, battutista e intrattenitore di cabaret,
figura lontana parecchi anni luce, anche se di notevole interesse sono risultate
le pellicole più recenti: Mariti e mogli (1992), Misterioso omicidio a
Manhattan (1993), Pallottole su Broadway (1994), Tutti dicono I love You (1996),
Accordi e disaccordi (1999).
Woody Allen in una scena di "Provaci ancora Sam"
UNA CINETECA DI 25 FILM
LA CORAZZATA POTEMKIN (Bronenosec Potëmkin)
Regia: Sergej
Ejzenstejn. Interpreti: Aleksandr Antonov, Grigorij Aleksandrov, Vladimir
Barskij. Urss, 1925.
Sarebbe dovuto essere un grandioso film celebrativo
della rivoluzione russa del 1905, nella ricorrenza del ventennale, ma Ejzenstejn
improvvisamente decise di ricordare la rivoluzione attraverso un unico episodio:
quello dell'ammutinamento nel porto di Odessa dell'equipaggio del Potëmkin.
Il film si articola sostanzialmente in cinque blocchi narrativi che vanno dal
rifiuto del rancio avariato da parte dei marinai della corazzata alla
fucilazione dei ribelli, dalla decisione dell'insurrezione con la partecipazione
della popolazione di Odessa alla repressione armata sulla famosa scalinata, per
concludersi con lo scontro della corazzata con il resto della squadra navale che
si muta nell'invocazione collettiva «Fratelli, Fratelli!». Il film
possiede un compatto afflato corale e può essere considerato un vasto
affresco epico, condotto dall'autore con intensa energia figurativa e con
commossa partecipazione ideale. In molti referendum internazionali è
stata considerata l'opera più bella di tutta la storia del
cinema.
LA GRANDE ILLUSIONE (La Grande Illusion)
Regia: Jean Renoir. Interpreti: Jean Gabin,
Eric von Stroheim, Pierre Fresnais, Marcel Dalio, Dita Parlo, Julien Carette,
Jean Dasté. Francia, 1937.
Potente appello per la pace e la
fraternità tra gli uomini, La grande illusione è anche uno
straordinario frutto del realismo psicologico caro ai migliori autori, scrittori
e registi, francesi. Il discorso contro la guerra, infatti, non affiora dalla
rappresentazione delle sue atrocità ma dalla testimonianza di quanto
nelle sue vicende siano calpestati e umiliati i rapporti tra gli individui. Un
gruppo di ufficiali francesi, durante il conflitto 1914-1918, viene internato in
una fortezza comandata dall'aristocratico von Rauffenstein, rigido militare
junker, che istituisce un privilegiato rapporto con uno dei suoi prigionieri, De
Boieldieu, appartenente alla sua stessa casta, con comuni amicizie nell'alta
società internazionale. Ma quando si avvede che l'ufficiale si adopera a
coprire la fuga di due commilitoni, un operaio parigino e un banchiere ebreo,
non esita a sparargli: deporrà sul suo cadavere un fiore di geranio.
Renoir, prigioniero durante la prima guerra mondiale, ha riversato nel film
molte esperienze personali. Eric von Stroheim, chiuso fino al collo in una
guaina d'acciaio dà vita ad un ritratto di ufficiale prussiano divenuto
proverbiale.
L'ETERNA ILLUSIONE (You Can't Take It With You)
Regia: Frank Capra. Interpreti: Lionel
Barrymore, James Stewart, Jane Arthur, Edward Arnold, Misha Auer, Ann Miller,
Donald Meek. USA, 1938.
Tolto da una commedia di successo di Kaufman e
Hart, L'eterna illusione costituisce, insieme a Accadde una notte (1935), il
più perfetto punto di fusione tra comicità sofisticata e favola
rassicurante riscontrabile nel cinema di Frank Capra. L'ottimismo candido e
inguaribilmente rooseveltiano del regista è qui presente con l'apologo
del miliardario che, a contatto con la famiglia povera e stravagante della
ragazza che il figlio vorrebbe sposare, si converte alla bontà e non
soltanto dà il consenso alle nozze ma si dedica a rendere felici i suoi
simili. Ma il controcanto della bizzarra comicità e della libertà
fantastica riscatta ogni margine dolciastro della storia. Se è vero che
la commedia sofisticata americana è il regno dei personaggi picchiatelli,
nessun altro film ne mostra un campionario paragonabile a questo, con i parenti
dell'eccentrico capofamiglia, impegnato a collezionare francobolli, immersi fino
al collo nella manifestazioni più folli, protagonisti di una spensierata
sarabanda quotidiana il cui simbolo è l'inopinata esplosione di una
riserva di fuochi d'artificio.
OMBRE ROSSE (The Stagecoach)
Regia: John Ford. Interpreti: John Wayne,
Claire Trevor, John Carradine, Thomas Mitchell, Andy Devine, George Bancroft,
Tim Holt. USA, 1939.
è il film che consegna al genere western il
suggello della classicità e uno dei più belli dell'intera storia
del cinema. Lo sceneggiatore Dudley Nichols e il regista si sono ispirati alla
lontana ad un racconto di Maupassant, Boule de suif, per la situazione narrativa
generale e la complessa rappresentazione psicologica; ma il clima è
quello tipico del racconto western statunitense e la vicenda è condotta
da Ford con straordinaria maestria sul filo di una costante tensione drammatica.
La storia è semplice; narra il viaggio attraverso il Nuovo Messico
infestato da bande di indiani Apaches di un gruppetto di persone costrette alla
convivenza nello spazio angusto di una diligenza: una prostituta, un fuorilegge,
un giocatore del Sud, un commerciante in liquori, un medico ubriacone, un
banchiere ladro, la moglie di un ufficiale in stato avanzato di gravidanza.
Prima di arrivare a Lordsburg, meta del viaggio, la signora partorisce in
condizioni d'emergenza, i Pellirosse attaccano la diligenza e i viaggiatori
vengono salvati dalla cavalleria. Tra Ringo, il fuorilegge, e la prostituta
nasce un idillio. Lo sceriffo consentirà a Ringo di compiere la sua
vendetta e di partire con la ragazza per rifarsi una vita. Lo stile narrativo di
Ford è, insieme, intenso e lineare. Non esiste in tutto il film un metro
di pellicola superfluo.
VIA COL VENTO (Gone With the Wind)
Regia: Victor Fleming. Interpreti: Clark
Gable, Vivien Leigh, Olivia De Havilland, Leslie Howard, Thomas Mitchell, Hattie
McDaniel. USA, 1939.
Prima di Fleming, imposto dall'amico Clark Gable, si
erano avvicendati sul set anche George Cukor e Sam Wood; ma nessuno dei due
andava bene a David O'Selznick, tirannico produttore e vero autore del film. Via
col vento costituisce il vertice delle possibilità produttive e
spettacolari di Hollywood. Tolto da un best seller, sceneggiato da dozzine di
scrittori (tra cui Scott Fitzgerald), sorretto da un'insolita grandiosità
di mezzi, interpretato da attori perfettamente rispondenti al loro ruolo (per il
personaggio di Rossella O'Hara, Vivien Leigh fu scelta dopo una colossale
selezione per tutti gli Usa e trovò qui il proprio lancio divistico), Via
col vento è il film che ha fatto registrare il più grande successo
internazionale e, ancor oggi, fatte le debite proporzioni monetarie, quello che
ha incassato di più nel mondo. Con lo sfondo storico e ambientale del Sud
e della guerra di secessione, la vicenda fondamentalmente melodrammatica, i
caratteri ben delineati dei personaggi, l'irreprensibile resa tecnica delle
scene d'insieme, questo film potrebbe anche venir considerato il capostipite
delle vicende seriali, tipo Dallas.
FURORE (The Grapes of Wrath)
Regia: John Ford Interpreti: Henry Fonda,
John Carradine, Jane Darwell, Doris Bowden, Ward Bond. USA,
1940.
Nonostante questa volta Ford non si sia servito del fedele Dudley
Nichols e abbia fatto ricorso a Nunnally Johnson per sceneggiare l'omonimo
romanzo di John Steinbeck, Furore è un film dall'impianto narrativo molto
fordiano, con un gruppetto di personaggi che si spostano per il paese
attraversando terre piene di insidie e di difficoltà. Su una vecchia
automobile, dove hanno caricato stracci e masserizie, i componenti la famiglia
Joad viaggiano dall'Oklahoma alla California in cerca di lavoro. Sono contadini
messi in ginocchio dalla Grande Depressione e dalla rapacità bancaria che
li ha privati della terra per recuperare il denaro prestato, come era accaduto a
molte altre famiglie rurali in quegli anni. Tra una bidonville e una fattoria,
sopravvivono con lavori di bracciantato giornaliero, passano attraverso uno
sciopero e le incursioni dei banditi, perdono un figlio in uno scontro con i
poliziotti. Il film è un potente affresco umano e sociale, impreziosito
dalla fotografia di Gregg Toland che qui, come in Quarto potere di Welles e
Piccole volpi di Wyler, impiega obiettivi capaci di rendere insolite
profondità di campo visivo.
QUARTO POTERE (Citizen Kane)
Regia: Orson Welles; Interpreti: Orson
Welles, Joseph Cotten, Agnes Moorehead, Ruth Warrick, Dorothy Comingore, Everett
Sloane, Paul Stewart, Ray Collins. USA, 1941.
Nonostante avesse solo 25
anni, Welles esordì ad Hollywood con alle spalle un grosso prestigio
derivatogli dalla direzione del Mercury Theatre e dalla trasmissione radiofonica
con cui aveva terrorizzato il Paese fingendo un'invasione di marziani. Ebbe
perciò a disposizione mezzi eccezionali, e Quarto potere è un film
eccezionale per intelligenza cinematografica e senso drammatico. è il
ritratto di un magnate self made man, secondo l'ideale statunitense. Il
riferimento reale è per William Randolph Hearst, potente capo di una
catena di giornali e stazioni radio che copriva tutta l'America. Hearst
cercò a lungo di evitare la circolazione del film che è anche un
amaro ritratto di solitudine umana e una forte critica al cosiddetto «sogno
americano». La vita del protagonista vi è narrata a ritroso, dopo la
sua morte, in un arduo gioco d'incastro di continui flash back. Hearst,
vincitore nato, vi è mostrato nella senile regressione all'infanzia,
ormai privo di memoria e di affetti, ridotto alla sola consolazione dei suoi
giocattoli di tanti anni avanti. Con l'aiuto dell'operatore Gregg Toland e dei
montatori Robert Wise e Mark Robson (due futuri registi di spicco), Welles
realizza un linguaggio filmico sorprendentemente nuovo ed
intenso.
CASABLANCA (Casablanca)
Regia: Michael Curtiz. Interpreti: Humphrey
Bogart, Ingrid Bergman, Claude Rains, Peter Lorre, Sidney Greenstreet, Paul
Henreid, Conrad Veidt. USA, 1942.
Nel film c'è l'individuazione
quasi miracolosa di tutti gli stereotipi di successo che hanno costruito gli
splendori di Hollywood la sua potenza di «fabbrica dei sogni»,
nell'approccio e nel coinvolgimento dell'immaginario collettivo delle platee di
tutto il mondo. è il prodotto di un regista, Michael Curtiz di sicura
esperienza ma anche di un sistema produttivo dal fiuto quasi infallibile. Amore,
avventura, patriottismo, romanticismo ambiguo dell'eroe, gusto dell'ambiente
misterioso si riversano in una vicenda che vede nella città libera di
Casablanca tradizionale covo di spioni e avventurieri internazionali, durante
l'ultimo conflitto, il padrone di un night club sacrificare il sentimento
personale e aiutare un'agente alleata e il compagno a sfuggire alla Gestapo, con
la maliziosa collaborazione del capo della gendarmeria francese. Il cast degli
interpreti agisce ad un livello invidiabile di efficacia; non ultimo motivo di
successo, la canzone interpretata nel night dal pianista nero,
Sam.
AMANTI PERDUTI (Les Enfant du Paradis)
Regia: Marcel Carné. Interpreti:
Jean Louis Barrault, Arletty, Pierre Brasseur, Maria Casarès, Marcel
Herrand, Louis Salou, Pierre Renoir. Francia, 1943/1945.
L'abituale,
stretta collaborazione tra il regista Marcel Carné e lo sceneggiatore
Jacques Prévert vede, questa volta, in maggior evidenza il secondo.
Prévert ha, infatti, riversato nel film tutto il romanticismo popolare
parigino ottocentesco (con espliciti riferimenti a Hugo e Balzac) mescolandolo a
modernissime riflessioni sulla vita e l'arte, i rapporti tra gli attori e gli
uomini, l'illusione e la realtà. Diviso in due parti, il film racconta la
storia di un grande amore impedito dal destino, ambientato tra il 1840 e il 1847
nella Parigi dello spettacolo infimo e aulico: Deburau è il mimo da fiera
che creò la figura del Pierrot; Frédérick Lemaitre è
l'attore famoso per il quale Dumas padre scrisse Kean. La donna di cui Debureau
è perdutamente innamorato, Garance, resterà per entrambi un
miraggio, anche se per lei Lemaitre arriverà alle soglie del delitto. Il
clima di disperazione e di sconfitta è tipico della coppia
Carné-Prévert, ma il regista mette di suo nel film una superba e
rarefatta figuratività che ha la meglio sulla raggelata tragicità
della vicenda. Memorabili gli interventi mimici di Barrault.
PAISÁ
Regia: Roberto Rossellini. Interpreti: non
professionisti. Italia, 1946.
Dopo Roma città aperta, Rossellini
trova in Paisà la condizione più congeniale per esprimere la
straordinaria capacità realistica e lirica del suo cinema. Realizzato
senza sceneggiatura, con le situazioni e i dialoghi che si evolvono a seconda
dei luoghi e delle popolazioni coinvolte, Paisà racconta in sei capitoli
la risalita della penisola da parte dell'esercito alleato tra il 1943 e il 1945.
Si incomincia in Sicilia con lo sbarco e, attraverso le tappe di Napoli, Roma,
Firenze e di un convento della Romagna, si arriva all'episodio in cui i tedeschi
sterminano una formazione di partigiani e di paracadutisti tra gli acquitrini
del delta del Po. Qui, le inquadrature hanno uno straziante nitore tragico cui
il paesaggio desolato partecipa intensamente. Nell'episodio fiorentino, invece,
sorretto da un ritmo incalzante, sono gli uomini a figurare al centro della
insensata avventura della guerra. Gli altri capitoli sono lievemente al di sotto
della straordinaria investitura poetica del racconto; ma sviluppano ugualmente
quella che è la posizione preminente di Rossellini, il suo sommesso
risentimento in difesa dell'uomo.
MONSIEUR VERDOUX (Monsieur Verdoux)
Regia: Charles Chaplin. Interpreti: Charles
Chaplin, Mady Corell, Martha Raye, Margaret Hoffman, Isobel Helsom, Marilyn
Nash. USA, 1947.
Fu Orson Welles a suggerire a Chaplin di realizzare questo
film lontanamente ispirato al caso Landru. Il cassiere Verdoux, funzionario e
sposo esemplare, assassina dodici donne in diverse città e si
impadronisce dei loro averi. Verrà tradito da una giovane vagabonda che
ha risparmiato. Processato, è condannato alla ghigliottina. L'azione
è ambientata in Francia, ma il discorso è universale («Un
delitto solo e siete un bandito. Alcuni milioni e siete un eroe. Il numero
santifica», dice Verdoux durante il processo) e denuncia la perdita dei
valori di un individuo cresciuto tra le macerie della catastrofe e reso cinico
fino al delitto sistematico dal proprio stesso smarrimento. La polemica
contingente che serpeggia nel film è quella contro l'atomica, ma Chaplin
conserva nel racconto un'impassibilità agghiacciante. Come farà
nei film successivi, Chaplin compare in una caratterizzazione reale e non nei
panni del vagabondo Charlot: il suo messaggio vuole andare diritto al cuore
della realtà storica di un'epoca in cui l'uomo della strada può
facilmente adeguarsi al grande massacro senza perdere di umanità.
Avviandosi alla ghigliottina con il vecchio passo charlottiano Chaplin-Verdoux
indica allo spettatore come il suo mondo poetico abbia toccato il punto di non
ritorno.
RASHOMON (Rashomon)
Regia: Akira Kurosawa. Interpreti: Toshiro
Mifune, Machiko Kyo, Masayuki Mori, Takashi Shimura. Giappone,
1950.
Davanti alle porte del tempio del dio Rasho, un tribunale conduce
l'inchiesta sulla morte di un samurai, ma le versioni non coincidono. Un bandito
afferma di avere ucciso l'uomo e violentato la moglie; questa dice di essere lei
l'assassina del marito; l'anima del defunto sostiene di essersi suicidato. Un
legnaiolo, infine, smentisce tutti gli altri. L'evidente ricorso al relativismo
pirandelliano circa la verità non è un'operazione
intellettualistica da parte del regista. Kurosawa ha inteso, in questo modo,
rappresentare lo smarrimento delle coscienze nel Giappone del dopoguerra ed ha
portato avanti un'azione di critica alla cultura e alla tradizione dei samurai.
Nel racconto del testimone, il morto riceve una patente investitura di doppiezza
e di viltà e l'ambientazione è cupa e opprimente, chiusa in una
foresta battuta incessantemente dalla pioggia. In questo film, che rivelò
in Occidente il livello d'arte della cinematografia nipponica, Kurosawa si
mostra abile e raffinato nella capacità di legare in un unico stile
elementi esotici e cultura europea.
SENSO
Regia: Luchino Visconti. Interpreti: Alida
Valli, Farley Granger, Massimo Girotti, Rina Morelli, Christian Marquand.
Italia, 1953.
Per la sontuosità figurativa, la fedeltà
storica, la stretta aderenza del dramma psicologico con il quadro politico e
patriottico risorgimentale, Senso è probabilmente il film più
bello di Luchino Visconti. Vi si aggiungano le magistrali immagini del direttore
della fotografia, Aldo, e l'intensa tragicità dell'interpretazione di
Alida Valli come contessa Serpieri e il giudizio non può che venir
ribadito. Visconti si ispira ad un racconto dello scapigliato milanese Camillo
Boito in cui è narrata la passione di una gentildonna maritata per un
ufficiale austriaco, passione che, passando attraverso l'abiezione dell'uomo, si
concluderà tragicamente con la sua fucilazione per diserzione. L'epoca
è quella della Terza guerra d'indipendenza, in Veneto. Dalla propria
esperienza culturale, Visconti ha saputo trarre la lucida visione critica che
contrappone la decadenza nobile alla generosità del patriottismo
borghese. Inoltre adombra la non partecipazione delle masse ai moti
risorgimentali in alcune sequenze tagliate dalla censura dell'epoca. Si
può dire che il segno melodrammatico riscontrabile nei film viscontiani
figura qui perfettamente assorbito nell'incandescente temperie di
tragicità.
LA DOLCE VITA
Regia: Federico Fellini. Interpreti:
Marcello Mastroianni, Anita Eckberg, Anouk Aimée, Alain Cuny, Magali
Noel, Yvonne Furneaux, Annibale Ninchi, Lex Barker. Italia, 1960.
Perfetta
testimonianza dell'alessandrinismo narrativo di Federico Fellini, della sua
vocazione a costruire romanzi cinematografici che non valgono per l'architettura
generale ma per la vivacità, l'ironia, il graffio delle situazioni
singole e dei particolari. Non per nulla, il regista è stato attratto
anche dal Satyricon, il più grande romanzo «alessandrino»
dell'antichità. Dall'incalzante succedersi e intersecarsi degli episodi,
che ruotano intorno alle svogliate esperienze di un giornalista, angosciato e
pigro, succube del caos quotidiano, dei comportamenti e della confusione dei
sentimenti, emerge un quadro indimenticabile della vita romana tra jet set e
popolo, mondo intellettuale e trasgressione snobistica. Il titolo del film
è diventato proverbiale, come proverbiale è rimasto il cognome,
Paparazzo, affibbiato da Fellini ad uno dei fotoreporter scandalistici che fa
muovere nella via Veneto by night. Nonostante un qualche moralismo esteriore, il
film è un pungente referto di costume della società italiana anni
Sessanta.
WEST SIDE STORY (West Side Story)
Regia: Robert Wise, Jerome Robbins.
Interpreti: Nathalie Wood, Russ Tamblyn, George Chakiris, Richard Beymer, Tony
Mordente. USA, 1961.
Con West Side Story il musical cinematografico
statunitense mette definitivamente da parte la tradizione e si avvia con
decisione verso un discorso più arioso e realistico. Nel trasferire sullo
schermo l'omonimo successo teatrale, Wise ha ambientato l'azione en plain air
girando anche i balletti in esterni tra la 68 a e la 1108 strada di New York. La
storia è quella di Romeo e Giulietta trasportata di peso nel quartiere
popolare in cui si affrontano bande giovanili di portoricani e di yankee.
L'amore di Tony per la portoricana Maria è complicato dal fatto che il
ragazzo ha ucciso il fratello di lei per vendicare la morte del proprio capo. La
spirale di violenza provocherà nuove vittime. Tony-Romeo muore in un
combattimento per la strada dopo aver creduto morta
Maria-Giulietta.
BLOW UP (The Blow Up)
Regia: Michelangelo Antonioni. Interpreti:
David Hemmings, Peter Bowles Vanessa Redgrave, Sarah Miles. Gran Bretagna,
1967.
In inglese, blow up significa «ingrandimento». è
appunto dall'ingrandimento di una fotografia scattata in un parco pubblico di
Londra che un fotografo di moda, insospettito dai tentativi della donna che vi
compare per farsi dare il negativo, scopre come la scena ritratta sia quella di
un omicidio. La struttura narrativa scelta da Antonioni è quella del
thriller ma la tensione del racconto scandisce un rapporto più decisivo:
quello tra l'individuo e la conoscibilità delle cose che ci circondano.
Da questo punto di vista, pare che qui Antonioni abbia fatto registrare una
più larga possibilità di rapporto in confronto all'alienazione
assoluta, all'iniquo silenzio delle cose di sue opere precedenti, come La notte
e L'eclissi. Blow Up costituisce anche una lucida testimonianza
dell'indeterminatezza con cui i giovani intellettuali londinesi vivono la loro
rivoluzione del costume alle soglie del Sessantotto. Con l'impiego di un
eastmancolor ricco di tenui cromatismi e chiaroscuri, il regista istituisce una
sorta di visività metafisica e floreale insieme, che è un poco la
vera ragione del fascino del film.
EFFETTO NOTTE (La Nuit Américaine)
Regia: François Truffaut.
Interpreti: Jacqueline Bisset, Jean Pierre Aumont Jean Pierre Léaud,
Valentina Cortese, François Truffaut. Francia, 1973.
è forse
la prova più esauriente di quali risultati possa raggiungere un cinema
che racconta se stesso. Con grazia maliziosa e sorridente Truffaut gira le
peripezie di un regista alle prese con la realizzazione di un ipotetico film
brillante, dal titolo inequivocabile: Vi presento Pamela. Tutti i problemi, che
quotidianamente si affollano intorno ad un set cinematografico, passano sullo
schermo in un gioco vivace tra invenzione e testimonianza personale: dalle
difficoltà con i finanziatori alle complicazioni sentimentali sorte
dentro la troupe, alle crisi professionali di alcuni interpreti e così
via. Lo stile di Truffaut è vivacissimo e, insieme, tenero e graffiante.
La sua metafora sul cinema è intrisa di autobiografia come nell'episodio
in cui il regista vede se stesso, ragazzino, rubare i manifesti di Quarto
potere.
2001: ODISSEA NELLO SPAZIO (2001: A Space Odissey)
Regia: Stanley Kubrick. Interpreti: Keir
Dullea, William Sylvester, Gary Lockwood, Daniel Richter. USA,
1968.
Insieme a Barry Lindon e Arancia Meccanica, compone la trilogia in
cui meglio si manifesta la sensibilità sontuosa e ironica di Kubrick e ne
costituisce il titolo più importante. Si tratta di una monumentale
metafora della vicenda umana dalla creazione al primo volo spaziale su Giove. Da
una base lunare, il più avanzato punto di osservazione dell'Universo,
parte la spedizione scientifica su Giove per scoprire la reale natura di un
misterioso monolito che incombe sulla Terra fino dall'era delle scimmie. La
spedizione è guidata da un cervello elettronico che, durante il viaggio,
paleserà di possedere tutti i vizi umani. Lo stile di Kubrick è
impassibile come si trattasse di un documentario scientifico, ma la sua ironia
si manifesta attraverso l'intrusione di sconcertanti banalità quotidiane
dentro il meraviglioso avveneristico. La visione del regista è
pessimistica e ammonitrice: nessun progresso della scienza cancellerà per
l'uomo il problema morale della vita. Kubrick ha sparso a piene mani nel
racconto trovate di grande classe. è rimasta proverbiale la sequenza in
cui le astronavi viaggiano per lo spazio danzando al ritmo del valzer di Strauss
Il bel Danubio blu.
IL PADRINO (The Godfather)
Regia: Francis Ford Coppola. Interpreti:
Marlon Brando, Al Pacino, Diane Keaton, James Caan, Robert Duvall, John Cazale,
Talia Shire. USA, 1972
Tratto da un romanzo di Mario Puzo, cosceneggiatore
con il regista, il film narra la storia di Mike Corleone, figlio di un mafioso,
il quale, pur essendo estraneo all'attività criminale della famiglia,
dopo l'attentato al padre don Vito, viene coinvolto nella vita del clan insieme
ai fratelli Sonny e Fredo. Divenuto l'erede del Padrino, è proprio lui a
organizzare il "regolamento di conti" e a studiare una nuova strategia negli
affari del clan mafioso. Pellicola di grande successo entrata nella storia del
cinema, al film furono assegnati tre Oscar: miglior film, migliore
sceneggiatura, migliore attore protagonista (M. Brando). Fu seguito da Il
Padrino – Parte II (1974) e da Il Padrino – Parte III
(1990).
PARIS, TEXAS (Paris, Texas)
Regia: Wim Wenders. Interpreti: Harry Dean
Stanton, Hunter Carson, Nastassia Kinski, Dean Stockwell. USA,
1984.
Probabilmente, il racconto cinematografico di Paris, Texas è
meno rigoroso e asciutto di quello di Lo stato delle cose che lo precede di un
anno e fonde con maggiore pregnanza la riflessione di un cineasta europeo
affascinato dal cinema americano con la ricreazione diretta del linguaggio di
questo cinema. Ma Paris, Texas ha il pregio di funzionare a livello esemplare
elevando un ben tipico materiale filmico al rango celebrativo del mito.
Esercita, cioè, sullo spettatore di trent'anni dopo la stessa funzione di
un Casablanca. Wenders mescola ingredienti sicuri: la solitudine del
protagonista, il rapporto timidamente difficile tra adulto e bambino, il viaggio
attraverso i grandi spazi e le città che punteggiano i nastri delle
autostrade, l'ambiguità del ruolo femminile e il suo ben dosato mix di
innocenza ed erotismo, di tenerezza ed estraneità. Il tutto con l'occhio
disponibile di un regista che si ritrova finalmente calato nel confronto
creativo con il proprio Eldorado.
LA ROSA PURPUREA DEL CAIRO (The Purple Rose of Cairo)
Regia: Woody Allen. Interpreti: Mia Farrow,
Jeff Daniels, Danny Aiello, Van Johnson. USA, 1985.
Con straordinaria
finezza, Allen riesce in questo film ad amalgamare livelli diversi di racconto.
Nella storia di Cecilia, che dimentica il grigiore e le quotidiane
contrarietà familiari perdendosi nel sogno ad occhi aperti della visione
cinematografica, troviamo una favola perfettamente scandita, un atto d'amore per
il film hollywoodiano di consumo degli anni Trenta, la riflessione sulla
funzione del cinema come antidoto alla Grande Depressione nella società
americana, l'aggiustamento dell'espressività di Allen nei confronti dello
stile di Chaplin e, infine, il suo gusto risentito di imbastire storie
attraversate da provocazioni intellettuali. Quest'ultimo motivo è
affidato ad una sorta di adattamento del pirandellismo alla vicenda. I
personaggi di un film di esotiche avventure escono dallo schermo e vanno in
cerca degli spettatori, specialmente il protagonista, aitante e col casco
coloniale, che è attratto dalla graziosa Cecilia. Ma la sua avventura
nella realtà non può durare e Cecilia si ritrova alle prese con i
problemi di tutti i giorni. Non le resterà che dimenticarsi nelle danze
di Ginger Rogers e Fred Astaire in Cappello a cilindro.
SCHINDLER'S LIST (Schindler's List)
Regia: Steven Spielberg. Interpreti: Liam
Neeson, Ben Kingsley, Ralph Fiennes. USA, 1993.
Tratto dal romanzo omonimo
di Thomas Keneally e basato su una vicenda realmente accaduta, il film narra la
storia di Oskar Schindler, industriale tedesco che decide di fare fortuna nella
Polonia invasa dai Tedeschi, impiegando come mano d'opera a basso costo nella
propria fabbrica di stoviglie centinaia di Ebrei altrimenti destinati ai campi
di concentramento. Riuscirà a salvarne 1.100, modificando al contempo la
propria attitudine, inizialmente indifferente e alla fine caratterizzata da una
piena presa di coscienza del valore della vita umana contro la follia nazista.
Il film ottenne sette premi Oscar: film, regia, fotografia, musica, montaggio,
sceneggiatura non originale e scenografia.
TRE COLORI - FILM BLU (Trois couleurs: Bleu)
Regia: Krzysztof Kieslowski. Interpreti:
Juliette Binoche, Benoît Régent, Florence Pernel. FR.-SVIZ.-POL.,
1993.
Julie (Binoche) perde in un incidente automobilistico il marito,
compositore, e la figlia. Distrutta dal dolore si chiude in un profondo
isolamento, garantito dal suo trasferimento in un appartamento di Parigi e
dall'uso di uno pseudonimo. L'incontro con una vicina di casa (Pernel) e la
vicinanza dell'assistente del marito (Régent), da sempre innamorato di
lei, la obbligano a riaprirsi alla realtà, della quale scoprirà
vicende e segreti (il tradimento del marito e la gravidanza dell'amante del
marito) che la sproneranno a ricominciare a vivere terminando il concerto
lasciato incompiuto dal marito. Il film si conclude con le immagini
dell'ecografia del nuovo figlio di Julie. Primo film di una trilogia (con Tre
colori - Film Bianco e Tre colori - Film Rosso) dedicata dal regista ai colori
della bandiera e ai tre concetti che furono motto della Rivoluzione francese
prima, della Repubblica francese poi (libertà, uguaglianza,
fraternità), Film Blu è legato al tema della libertà,
intesa come totale possibilità di amare senza vincoli posti dal passato
(la cui veridicità può essere a tratti negata) o da se stessi. La
pellicola, capace di un coinvolgimento emotivo progressivo e intenso, venne
premiata a Venezia con il Leone d'oro
e con la coppa Volpi alla
protagonista femminile.
LA VITA È BELLA
Regia: Roberto Benigni. Interpreti: Roberto
Benigni, Nicoletta Braschi, Giorgio Cantarini, Giustino Durano, Sergio Bustric,
Horst Buchholz. Italia, 1997.
Toscana, anni Trenta. Guido Orefice (Benigni)
è un giovane ebreo innamoratosi della bella maestra Dora (Braschi): i
due, dopo un breve corteggiamento, si sposano e hanno un figlio, Giosuè
(Cantarini). Il tempo passa e ha inizio la persecuzione contro gli Ebrei: Guido
e Giosuè vengono deportati in un campo di concentramento dove, sebbene
non ebrea, si fa rinchiudere anche Dora. Una volta nel campo di prigionia Guido
riesce a convincere Giosuè che tutti i presenti sono solo i protagonisti
di un gioco a premi il cui premio finale è un grosso carro armato. Film
dolce, struggente, equilibrato nelle sue varie componenti, riesce a far ridere e
piangere con la stessa sincerità e con lo stesso slancio. Un inno
all'innocenza (e alla sua preservazione), all'amore (materno, paterno, filiale,
coniugale), alla solidarietà, e un atto d'accusa nei confronti
dell'orrore e della stupidità della guerra e dell'ideologia che ne
è la base. Scritto da Benigni con Vincenzo Cerami, il film
guadagnò cinque Nastri d'argento, sette nomination agli Oscar e tre
statuette (miglior film straniero, miglior attore, migliore colonna sonora).
TITANIC (Titanic)
Regia: James Cameron. Interpreti: Leonardo
Di Caprio, Kate Winslet, Billy Zane, Kathy Bates. USA, 1997.
Viaggio
inaugurale del Titanic, transatlantico destinato a entrare nel mito per la sua
breve vita: Rose (Winslet), una giovane aristocratica in viaggio per gli Stati
Uniti per sposare il fidanzato (Zane) voluto dalla madre, e Jack (Di Caprio), un
artista appartenente a una classe sociale meno elevata che si guadagna da vivere
tracciando ritratti, si innamorano e vivono la loro breve ma intensa storia
d'amore nello spazio di una traversata terminata con il naufragio e con la morte
del giovane. Ed è proprio Rose, ormai anziana, a ricordare e a raccontare
a chi sta cercando tra i resti del Titanic il prezioso diamante blu a lei
appartenuto, la vera, sconosciuta storia del viaggio e del naufragio del
transatlantico. Grandissima storia d'amore inserita in un contesto spettacolare
maestoso (il Titanic ricostruito è di dimensioni di poco inferiori
all'originale), il film decretò il successo dei protagonisti e
riuscì ad aggiudicarsi 11 premi Oscar, tra i quali ricordiamo quelli per
miglior film, migliore regia, migliori effetti speciali, migliore colonna
sonora, migliore canzone, migliore fotografia, miglior suono e migliori costumi.
Titanic (1997): la locandina