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ITINERARI - PAROLE E IMMAGINI - IL CINEMA

ORIGINI E PRIMI SPLENDORI

è convenzione far risalire la nascita ufficiale del cinema a sabato 28 dicembre 1895, quando i fratelli Louis e Auguste Lumière organizzarono, al Gran Café di boulevard des Capucines, a Parigi, proiettando La sortie des usines in cui si vedeva l'uscita degli operai da una fabbrica, la prima rappresentazione a pagamento dei risultati ottenuti dall'invenzione che avevano provveduto a brevettare nel febbraio precedente: il Cinématographe Lumière. Si trattava di un'apposita macchina in grado di fissare e proiettare su di uno schermo una serie di immagini in movimento. I fratelli Lumière avevano condotto al risultato finale una ricerca durata secoli e secoli: dalla lanterna magica, già nota ai Romani (se ne sono trovate tracce negli scavi di Ercolano) al Kinetoscope inventato dallo statunitense Thomas Alva Edison, geniale pioniere del fonografo e del telegrafo, quattro anni avanti. Alla base della cinematografia sta il principio fisico, teorizzato scientificamente da Newton, della persistenza sulla retina delle immagini per una frazione di tempo che è di circa un decimo di secondo. Ne consegue che, facendo passare una serie di almeno dieci fotografie (fotogrammi) al secondo, si ottiene da parte dello spettatore la percezione di un movimento continuo. Per il loro cinema, i Lumière usarono un ritmo di quindici fotogrammi al secondo, onde evitare il rischio di immagini a scatti. Nel suo Kinetoscope, per contro, Edison aveva usato un ritmo di oltre quaranta fotogrammi al secondo; ma, nonostante la sua smagliante intelligenza tecnica (definì, ad esempio, la qualità e il formato della pellicola in celluloide forata ai due lati come quella odierna), sul ritmo di proiezione Edison era lontano dal centrare il problema. Il cinema muto si è assestato sui sedici fotogrammi al secondo; quello sonoro sui ventiquattro. La nuova forma di spettacolo incontrò un successo travolgente. Dapprima fu ospitata in baracche, sotto i tendoni o in vecchi locali dismessi; presto nacquero strutture viaggianti che battevano fiere e luna-park, con una capienza anche di mille posti. Agli albori del secolo comparve qualche struttura fissa sistemata per lo più in ex teatri; ma la spinta determinante all'affermarsi del cinema la dettero, in USA, i cosiddetti Nickelodeons, salette di proiezione aperte dalle 8 del mattino a mezzanotte, il cui biglietto costava un nickel, 5 centesimi di dollaro. Alla loro gestione provvidero molti dei futuri magnati di Hollywood. Il primo fu aperto a Pittsburgh, nel 1905, da Adolph Zukor che diventerà il boss della Paramount; altri ne installarono Carl Laemmle, fondatore dell'Universal, William Fox, Marcus Loew, padrone della Metro, e i fratelli Warner. Nel 1910, i Nickelodeons erano più di ventimila in tutti gli Stati Uniti e rendevano cifre enormi. Vi venivano proiettate serie di film da una bobina (intorno ai 300 metri), in linea con la produzione dei primordi. Il tramonto dei cinemini da un nickel fu conseguenza del graduale passaggio dal corto al lungometraggio. Del resto, già nel 1913, un palace cinematografico capace di tremila posti sorse a far concorrenza ai teatri della Broadway.
Il successo del fenomeno cinematografico pose quasi immediatamente l'esigenza del suo sfruttamento commerciale con la realizzazione di film che alimentassero l'aspettativa del pubblico. I pionieri del nuovo mezzo espressivo furono perciò anche registi e, soprattutto, produttori. Cominciando da Louis Lumière (1864-1948) che diresse una quarantina di film e ne produsse circa 1500, mentre il fratello Auguste aveva scelto la strada degli studi di biologia. Lo stile di Lumière era rigorosamente realistico-documentario. I suoi operatori riprendevano dal vero avvenimenti di spicco, calamità naturali, ricorrenze ufficiali, festeggiamenti, ecc. Non esistevano soggetti di fantasia né attori. Soltanto negli ultimi anni Lumière ricorse a scenette comiche, attualità «ricostruite», film a soggetto d'argomento storico e religioso (La vita e la passione di Gesù). Il suo contraltare diretto fu Georges Méliès (1861-1938), audace vessillifero del cinema fantastico in cui riversò tutti i trucchi coltivati nella antecedente carriera di illusionista da palcoscenico. Il suo film più famoso è Viaggio sulla luna (1902) che è anche il più rappresentativo della sua inventiva magicamente fantasmagorica. Méliès aprì e attrezzò per le riprese un teatro di posa a Monteuil, si servì di soggetti scritti, di attori, specialmente di stupefacenti marchingegni tecnici. Usò anche il colore impiegando alcune centinaia di ragazze che tinteggiavano a mano ciascun fotogramma. Le sue creazioni arricchirono enormemente il potenziale espressivo del cinema. Intuì alcuni fondamenti della grammatica cinematografica (primi piani, dissolvenze incrociate, sovrimpressione movimenti di macchina), anche se non arrivò a pensare una sintassi. Le sue vedute sono sempre frontali, con lo stesso punto di vista come a teatro, serie di quadri in successione uniforme e non variamente legati tra loro dal montaggio. Con la prima guerra mondiale, Méliès subì un rovescio economico che lo costrinse al ritiro, soppiantato dalle produzioni Pathé (che controllava anche la distribuzione) e Gaumont (che controllava i circuiti delle sale).
Singolare figura di industriale attento alle ragioni dell'arte fu Léon Gaumont (1864-1946). Nel suo vasto teatro di posa ricorse per le scenografie all'apporto di Menessier, uno dei più affermati pittori della Parigi tra i due secoli, e dette l'avvio ad una più moderna soluzione del problema-colore utilizzando la sovrimpressione di tre riprese della stessa scena con filtri diversamente colorati. La sua principale invenzione fu il Cronophone, cioè un procedimento di armonizzazione a posteriori delle scene girate con i dischi contenenti le relative parole o musiche: quasi un'anticipazione del doppiaggio. Gaumont non mancò di servirsi di registi di talento, come Louis Feuillade, realizzatore del primo serial d'argomento poliziesco, incentrato sul personaggio di Fantomas (1913-14). Negli anni della guerra lavorarono per la sua industria multinazionale (oltre 50 affiliati nel mondo) i giovani Marcel L'Herbier e Jacques Feyder.
Tuttavia, l'autentico magnate del cinema nascente, colui che lo trasformò da attività artigianale in grande industria, fu Charles Pathé (1863-1957): famoso anche per l'invenzione di una cinepresa a passo ridotto, 16 mm invece dei 35 abituali. A lui si deve la creazione di un'industria a ciclo verticale: dalla costruzione degli strumenti tecnici alla produzione e distribuzione dei film. Vi fu anche il coinvolgimento del mondo finanziario con strategie internazionali di alleanze e partecipazioni incrociate di capitali. Dominatore incontrastato su tutti i mercati europei, allargò agli USA la sua attività in un'altalena di guerre e di collaborazioni con il colosso delle produzioni Edison, di cui fece proprie le scelte spettacolari (i serial di Pearl White, ad esempio) e i procedimenti pubblicitari. I film della Pathé toccano tutti i generi e debbono il loro successo al fiuto sicuro di un cineasta come Ferdinand Zecca per decenni a capo della produzione. La società aveva creato marchi autonomi in Olanda, Germania, Inghilterra, Russia, Italia e, infine, negli Stati Uniti. Le sue fortune durarono fino all'avvento del sonoro quando, in seguito ad una grave crisi, dovette cedere i suoi film alla RKO di Joseph Kennedy. Ma, nel frattempo, si era assicurata la distribuzione delle comiche di Harold Lloyd e di quelle di Mack Sennett. Del resto, proprio grazie ad un comico, Max Linder, la Pathé aveva sfondato sui mercati d'oltre Atlantico.
Alla casa di produzione voluta da Edison si deve il legame tra il cinema delle origini e i fasti hollywoodiani, con il contributo intermedio, particolarmente negli anni della guerra, della Triangle: un fortunato esperimento produttivo che vedeva coinvolti tre cineasti del calibro di David W. Griffith, Thomas Ince e Mack Sennett. Fu nell'ambito della produzione Edison che Edwin S. Porter poté articolare una prima sintassi, fondata sul montaggio, della narrazione cinematografica in La grande rapina al treno (1903) considerato altresì il capostipite del genere western. Contemporaneamente, con La capanna dello zio Tom, che era lungo 335 metri ed esibiva una realizzazione molto costosa, la Edison aprì la strada verso il lungometraggio e lo stile kolossal. Entrambi, tuttavia, conobbero in Italia, e in maniera intrecciata tra loro, la prima fioritura e il primo autentico successo internazionale. Il cosiddetto «film lungo», infatti, richiedeva grandiosità e sontuosità di veduta e ne sfruttava al meglio le implicazioni economico-spettacolari.
Il lungometraggio «colossale» italiano fu essenzialmente storico, coltivato da case di produzione come l'Ambrosio, l'Italia, la Gloria a Torino (allora autentica capitale italiana del cinema), la Cines, la Celio e la Caesar, a Roma, e la Milano film. Grandiosità scenografiche, largo impiego delle masse, interpreti tolti dal teatro, gigantismo spettacolare, accesa drammaticità popolare, contrassegnarono il nuovo gusto, consegnato a film come Inferno (da Dante), Gli ultimi giorni di Pompei, Quo vadis? e, specialmente, Cabiria (1914) che segnò il trionfo del regista-produttore Giovanni Pastrone, dalle cui invenzioni cinematografiche pare sia stato influenzato anche Griffith. In Cabiria, Pastrone lanciò il personaggio del gigante buono Maciste (l'ex portuale genovese Bartolomeo Pagano) che diventerà protagonista di una serie di generose avventure protrattesi fino all'avvento del sonoro. Inoltre, per 100 mila lire, ottenne l'imprimatur di D'Annunzio alle didascalie del film da lui stesso scritte nello stile del Vate.
Altri generi alimentarono quel periodo felice del cinema italiano che entrerà in crisi, dopo il 1919, insieme alle illusioni delle principali case di produzione consorziatesi, sull'esempio straniero, nell'Unione Cinematografica Italiana, senza essere in grado di reggere la concorrenza dei trust statunitensi. Gli avvenimenti politici interni contribuirono a relegare nell'ombra il film nazionale: nei primi anni del fascismo l'industria italiana non riesce a produrre più di una dozzina di titoli l'anno, lontani, del resto, anche come qualità dalle opere del filone verista: Sperduti nel buio (1914) e Teresa Raquin (1915), di Nino Martoglio, derivati da Bracco e Zola, e Assunta Spina, da Salvatore Di Giacomo, diretto da Gustavo Serena e interpretato da Francesca Bertini. Il ricorso a celebri opere letterarie e/o teatrali era d'obbligo; qui, l'apice fu toccato da L'histoire d'un Pierrot, portato sullo schermo nel 1913 da Baldassarre Negroni con un cast di tutto rispetto: la Bertini, Leda Gys, Emilio Ghione. Prende piede, frattanto, il fenomeno del divismo che coinvolge, oltre ai citati, attori come Lyda Borelli, Italia Almirante Manzini, Giovanni Grasso, Alberto Collo, Mario Bonnard, Pina Menichelli, Tullio Carminati, Maria Jacobini e, nella farsa, Cretinetti (il comico francese André Deed). Ghione è interprete, fra il 1917 e il 1918, di un popolarissimo serial nero centrato sul romantico personaggio di Za la Mort. E si affermano registi di sicuro talento: Pastrone, Negroni, Lucio d'Ambra, Mario Caserini, Augusto Genina, Carmine Gallone. Gli ultimi tre, dopo le guerre e la crisi, troveranno spazi idonei alla loro professionalità sui set di Parigi e Berlino.

GRIFFITH

Diversi storici hanno scritto essere stato David Wark Griffith l'autentico inventore del cinematografo. Affermazione, di per sé, eccessiva, ma non priva di una sua sostanziosa fondatezza. Griffith, infatti, non è letteralmente l'inventore del cinema, ma è sicuramente l'autore che dette al nuovo mezzo espressivo dignità artistica, togliendolo dal clima corrivo dei luna-park e dei Nickelodeons e ponendolo in una collocazione più spiccatamente culturale. Figlio di un generale, appartenente ad una distinta famiglia del Kentuky, Griffith (1875-1948) portò nel mondo in celluloide una buona educazione borghese e aspirò sempre a fare del cinema uno strumento di espressione e di riflessione, al pari del teatro e della letteratura. Fu il primo che utilizzò sistematicamente per lo schermo famose opere letterarie e il primo trascrittore cinematografico di un testo shakespeariano (La bisbetica domata, 1908). Fu anche il regista che seppe organizzare in un sistema armonico tutte quelle invenzioni che arricchirono il giovane linguaggio cinematografico. Si dice che Griffith abbia inventato il primo piano, il campo lungo, l'illuminazione psicologica, ecc. Probabilmente egli si limitò ad usare questi elementi con maggior consapevolezza espressiva dei suoi colleghi. Certamente, inventò il montaggio che fu detto alla Griffith: l'alternanza narrativa di rapidi segmenti di due azioni diverse, divenuta canonica nei finali dei film western (e riassunta nel detto popolare di: - Arrivano i nostri! -) con i soccorritori che sopraggiungono in extremis a salvare l'eroe (più spesso, l'eroina) nei pasticci.
Produttore e regista dai progetti geniali, Griffith guadagnò e perse milioni di dollari, preferendo spesso la condizione di indipendente ai rapporti con le case di produzione. I film sulla storia americana e i colossi d'argomento biblico (Judith di Betsabea è il più famoso) furono i suoi preferiti ed entrambi i generi confluiscono nelle sue due superrealizzazioni, Nascita di una Nazione e Intolerance.
Nascita di una Nazione (1914) è preparata, due anni avanti, da un film minore, The battle, sulla guerra di secessione. F. un poderoso affresco storico sui dieci anni cruciali della vita degli Stati Uniti, dallo scoppio della guerra civile alla riorganizzazione del Sud vinto, visti attraverso i rapporti che coinvolgono due famiglie (Selznick, pensando a Via col vento, si ricordò molto di Griffith). Grosso successo commerciale, Nascita di una Nazione scivolò sul problema negro poiché il regista parve compiacere troppo la sua origine sudista nel presentare le incappucciate vendette del Ku Klux Klan, che si avvicendano nel film al ritmo di un filo musicale alternato sui temi della cavalcata delle Valchirie e di Dixie.
Il successivo Intolerance (1916) è una sdegnata requisitoria contro l'intolleranza delle idee altrui, svolta in quattro episodi: a Babilonia, sul Golgota, nella Francia della notte di San Bartolomeo e durante la repressione sanguinosa di uno sciopero negli Stati Uniti d'oggi. Nonostante la fastosa complessità della messa in scena, il film disorientò il pubblico statunitense non ancora abituato a ritrovare sullo schermo spunti ideologici e temi di discussioni. Legato dal leit motiv di una madre che dondola una culla, con riferimento ad un verso di Walt Whitman, Intolerance non riscosse un successo popolare e costò al suo autore un deficit di un milione di dollari: l'esatta metà di quanto era costato. Griffith vi aveva profuso le sue migliori energie e, in seguito, firmò soltanto produzioni meno azzardate. Anche se, in alcune di esse, riuscì a ritrovare tutta la sua genialità di autore: Cuori del mondo (1917), Giglio infranto (1919), America (1924); specialmente, Isn't Life Wonderful? sulla miseria nella Germania del primo dopoguerra, e, già sonoro, Il cavaliere della libertà (1930), biografia di Abramo Lincoln. Ma il sonoro non gli portò fortuna; sottolineò, anzi, irreparabilmente, la sua condizione, in qualche modo, di sopravvissuto. L'ultimo film di Griffith, The Struggle (1932) sul problema dell'alcolismo non fu mai distribuito.

DAL MUTO AL SONORO

Nel 1919, in URSS, Lenin nazionalizza l'industria cinematografica determinando una svolta nelle sorti di una produzione che, nell'anteguerra, si era limitata a portare sullo schermo i capolavori della letteratura nazionale mentre negli anni del conflitto e della rivoluzione era rimasta ferma a poche realizzazioni di propaganda. Come nell'ambito della poesia, il cinema sovietico fa registrare una confluenza tra le poetiche dell'avanguardia e l'ideologia rivoluzionaria. Dziga Vertov, Kulesov, Protazonov sono i maestri di una nuova generazione di cineasti le cui opere si imporranno all'attenzione internazionale, unitamente alle loro enunciazioni teoriche, con sensibili conseguenze sull'evoluzione del linguaggio filmico. Ejzenstejn (1898-1948) proviene dal teatro e dalle teorie futuriste; ma fin dall'esordio cinematografico (Sciopero, 1924) si mostra totalmente calato nella nuova realtà sovietica. Il suo primo capolavoro (La corazzata Potëmkin, 1925) rivela uno straordinario talento narrativo e figurativo. La coralità e la matematica scansione espressiva di Ejzenstejn trovò riscontro nella sottile sensibilità lirica e psicologica di Vsevolod Pudovkin (1893-1953) che dette il meglio di sé in quattro opere realizzate tra il 1926 e il 1928: La madre (da Gorkij), La fine di San Pietroburgo, Tempeste sull'Asia, Il discendente di Gengis Khan. In esse l'attenzione antropologica e il penetrante ritratto dei personaggi ha modo di recuperare il valore della recitazione. Il regista, infatti, aveva cominciato come attore e dedicherà all'arte della recitazione importanti saggi. Appaiono ancora notevoli, nel quadro della giovane cinematografia sovietica, il documentario formalistico coltivato da Vertov nell'ambito del suo gruppo Kino Glas (L'uomo con la macchina da presa, 1929), l'epicità commossa dell'ucraino Alexandr Dovzenko (1894-1956), giunto al cinema dalla pittura (Arsenal, 1928, La terra, 1929, sui contrasti nati in seguito alla collettivizzazione agraria) lo sperimentalismo tra cinema e teatro della coppia Kosintzev-Trauberg, fondatori della FEKS, la «Fabbrica dell'attore eccentrico», che inclinarono verso una sorta di commedia di lieve satira quotidiana.
Mentre le teorie sul montaggio dei cineasti sovietici si innestavano sulla tradizione documentaristica inglese, favorendo l'affermarsi in Gran Bretagna, per tutto il periodo muto e oltre, di una rigorosa scuola dal vero, il cinema francese del dopoguerra vive un decennio di simbiosi con i movimenti pittorici e letterari coevi. Una reviviscenza dell'impressionismo coinvolge talenti notevoli come Marcel L'Herbier (Il fu Mattia Pascal, 1925), Jean Epstein (Cuore fedele, 1923), Abel Gance (Napoleone, 1926). Il cubismo orienta Fernand Léger (Balletto meccanico, 1924); il surrealismo accomuna le due personalità più note del periodo, René Clair (Entr'acte, 1924) e Luis Buduel (Un chien andalou, 1928, L'age d'or, 1930). Clair matura dall'esperienza d'avanguardia una maestria ritmica, una leggerezza fantastica e una sorridente ironia che gli consentiranno di firmare due tra i film di maggiore spicco del muto: Un cappello di paglia di Firenze (1927) e, l'anno dopo, I due timidi. Anche Jacques Feyder è attivo; ma, nonostante il successo di Atlantide (1922), il mercato francese lesina le occasioni ed il regista emigra in Germania dove realizza un ottimo Teresa Raquin (1928) dal romanzo di Zola.
Alla fine della guerra, la sola cinematografia europea in grado di contrastare l'emergente supremazia hollywoodiana è quella tedesca. La Ufa, producendo da sola oltre 200 film l'anno, ottiene singolari risultati anche sul piano qualitativo; ma la spaventosa inflazione che afflisse la Germania postbellica finì per mettere in ginocchio il film tedesco. Dopo il 1925 anche l'Ufa si sottomise alla potenza del dollaro, mentre molti registi e attori varcavano l'oceano in cerca di miglior fortuna. A rappresentare la migliore produzione artistica di Berlino, quasi interamente incentrata sulla poetica espressionista, fu la triade Murnau-Lang-Pabst. I caratteri dell'espressionismo cinematografico (altrimenti vivo nella pittura e nel teatro), la sua carica visuale fortemente drammatica, la stilizzazione deformata di ambienti e personaggi, l'uso dell'illuminazione (L'urlo della luce) e dei valori plastici in funzione quasi allucinativa per simboleggiare la condizione tragica dell'individuo, stretto tra l'urgenza dei trasalimenti sociali e la crudeltà di un destino che annienta, e suggerire allo spettatore quello che veniva definito «lo sgomento delle cose»: sono tutte componenti presenti nel film che è un poco il biglietto da visita del movimento: Il gabinetto del dottor Caligari (1919), che unisce il contributo di forti personalità sotto la direzione di Robert Wiene: lo scenografo Walter Reimann, lo sceneggiatore Carl Mayer, gli interpreti Lil Dagover, Conrad Veidt, Werner Krauss.
L'austriaco Carl Mayer (1894-1944) con le sue sceneggiature fu il principale esponente di una variante dell'Espressionismo maggiormente legata al teatro, il Kammerspiele, o «teatro da camera» appunto, in cui il clima ossessivo e disperato si instaura nel chiuso di tragedie moderne che recuperano nella struttura l'irreparabile fatalità delle tre unità aristoteliche coniugandole con l'infelicità e la sconfitta umane. Nell'ambito del Kammerspiele, risentirono delle posizioni di Mayer registi come Paul Leni e Lupu-Pick. Il primo sviluppò uno stile inquietante e minaccioso, scandito su di un greve gioco di luci e d'ombra che, nell'episodio di Ivan di Tre amori fantastici (1924), avrebbe suggerito qualcosa anche all'Ejzenstejn di Ivan il terribile. Emigrato in USA, con Il castello degli spettri (1927), L'uomo che ride (1928) e Il teatro maledetto (1929), dette forte impulso al gusto del cinema dell'orrore. Il secondo, con La rotaia e La notte di San Silvestro, tra il 1921 e il 1924, offrì al dramma individuale intimista due suggestivi modelli.
Accanto a Murnau, che con Nosferatu sembrò interpretare un rigoroso Espressionismo e con L'ultima risata, su sceneggiatura di Mayer, parve orientarsi esplicitamente sul versante Kammerspiele, si colloca la figura e l'opera del viennese Fritz Lang (1890-1976). Il suo primo film di successo, Destino (1921), reca già esplicitato nel titolo l'ineluttabile scacco cui è condannato l'uomo. L'anno successivo, con Il dottor Mabuse, Lang getta le basi per una nobile utilizzazione dei canoni espressionisti nel genere poliziesco: utilizzazione che egli stesso mise in opera dopo l'esilio negli Stati Uniti e fu praticata, negli anni Trenta, da molti registi di Hollywood. Dopo il grandioso e mortuario I Nibelunghi (1924), che non dispiaceva ai gerarchi nazisti, Lang diresse nel 1927 il film forse più significativo di questi anni muti, Metropolis, singolare crocicchio di scacchi individuali e servitù sociali ambientato nell'allucinante incubo di una città alienata che pare materializzare, nelle sue oscure e sghembe topografie, una tensione insostenibile di lucido delirio.
Soltanto indirettamente rientra nel movimento espressionista Georg W. Pabst (1885-1967) per un film del 1929, Lulù, dal dramma di Wedekind Il vaso di Pandora, che rivelò l'espressiva e incantevole femminilità della protagonista Louise Brooks. Pabst fu, piuttosto, un realista aperto a problematiche sociali, talvolta partecipe della poetica della cosiddetta «Nuova oggettività»; ad esempio, in La via senza gioia (1925), L'amore di Gianna Ney (1927), Crisi (1928), dove il racconto fa ricorso al contributo di reportages giornalistici e di tabelle statistiche. Tra il 1930 e il 1934, già operante il sonoro, Pabst realizzerà due forti film di denuncia: La tragedia della miniera e il pacifista Westfront 1918; mentre ai due anni successivi appartengono le brillanti versioni della brechtiana Opera da tre soldi e del Don Chisciotte. Altri indirizzi si manifestano nel cinema tedesco di quegli anni: principalmente quello sfarzosamente spettacolare legato alla fantasia scenica di Max Reinhardt in cui riscosse qualche successo Ernst Lubitsch (Anna Bolena, 1920).
Due fatti determinano una svolta nella storia del cinema americano: lo scioglimento della Triangle e la nascita di Hollywood. Il primo mette in crisi la produzione d'arte; il secondo porta un formidabile impulso alla produzione commerciale. All'affievolirsi della vena creativa in Griffith, Ince e Sennett corrispondono la nascita dello star system e la politica spettacolare delle prime grosse case di produzione. Hollywood, un sobborgo di Los Angeles, anticamente abitato dagli indiani Cherokee, diventa gradatamente la «Mecca del cinema». Utilizzata saltuariamente da troupes cinematografiche agli inizi del secolo, ospita dal 1911 il primo teatro di posa permanente per girare un film. Cecil B. De Mille, destinato a riconoscersi nel cinema kolossal e nel cattivo gusto, vi dirige nel 1914 il western The Squaw Men.
La Paramount, con il suo slogan «Attori famosi in opere famose» (più tardi, quello della Metro sarà: «Più stelle che in cielo!») è la prima casa di produzione a lanciare la formula di una storia popolare sorretta nella curiosità del pubblico dal mito del divismo. Nel 1919, due attori ai vertici del successo, Mary Pickford e Douglas Fairbanks sr., si uniscono a due registi di classe superba, Griffith e Chaplin, fondando la Artisti Associati, il cui fine era di competere, per potere e guadagno, con i grandi produttori. Ma Chaplin a parte, che vi realizzò La donna di Parigi, La febbre dell'oro e Il circo, la Artisti Associati conquistò il mercato con opere fatte su misura per mettere in vetrina l'appel della Pickford, fanciulla ideale dai riccioli biondi, soprannominata «La fidanzata d'America» (ma anche sensibile comedienne in Rosita di Lubitsch, La bisbetica domata e Una povera bimba milionaria di Tourneur) e gli atletici eroismi generosi di Douglas Fairbanks diretto da Allan Dwan e Fred Niblo in Il segno di Zorro, La maschera di ferro, I tre moschettieri, Robin Hood, Il pirata nero. Intanto, nascono e si consumano i culti di John Barrymore, Norma Thalmadge, Lilian Gish, Edna Purviance, Theda Bara, Clara Bow, Gloria Swanson, Charles Farrell, John Gilbert, Ronald Colman, George O'Brien, Lon Chaney, Jack Holt, Wilma Banky, Alla Nazimova, ecc. Tutti relegati, tuttavia, in secondo piano dal culto nevrotico e quasi religioso cresciuto intorno alla figura dell'amante latino per antonomasia, l'italiano Rodolfo Valentino (Rodolfo Guglielmi, 1885-1926). Ancora oggi, ignote ammiratrici depongono fiori sulla tomba dell'acclamato interprete de I quattro cavalieri dell'Apocalisse, Sangue e arena, Aquila nera, Monsieur Beaucaire, Il figlio dello sceicco, tra i tanti.
Mentre De Mille si concedeva qualche incursione nella commedia piccante (Maschio e femmina con Gloria Swanson) e il genere kolossal trovava un nuovo cultore in Fred Niblo con Ben Hur (1926), l'appiattimento commerciale propiziato dallo star system era efficacemente contrastato dai registi importati dall'Europa, abituati ad un diverso impegno di originalità creativa. Aurora (1927) di Murnau, Il vento (1928) dello svedese Sjöström, Primo amore (1929) dell'ungherese Fejos sono opere di sottile introspezione psicologica e di intensa verità. Con Le notti di Chicago e I docks di New York il viennese Joseph von Sternberg, il futuro pigmalione di Marlene Dietrich, riversa, tra il 1927 e il 1928, lo stile espressionista nel melo nero statunitense. Nel 1924, Ernst Lubitsch gira due commedie intrise di malizia mitteleuropea: Matrimonio in quattro e La zarina. Ed è in un altro viennese, Eric von Stroheim che il film muto statunitense trova il creatore più personale e genialmente intemperante. Per parte sua, il cinema USA ha da opporre ai registi stranieri il talento del texano King Vidor (1894-1982) i cui film mostrano un'insolita capacità di penetrare dentro la sensibilità dell'uomo medio: non soltanto i drammatici La grande parata (1927) e La folla (1928), ma anche quella sorta di anticipazioni della commedia sofisticata che sono Fascino biondo e Maschere di celluloide interpretati da Marion Davies. Infine corona la brillante tradizione sennettiana dei comici, Buster Keaton (1895-1966), l'attore che affronta ogni sorta di ostacoli materiali senza che non un muscolo del volto si muova, bloccato come appare in una impassibilità tra tragica e metafisica. Alcuni film da lui diretti e interpretati (Accidenti che ospitalità, Il dominatore, Come vinsi la guerra, Il navigatore) hanno indotto qualche critico a paragonarlo (e, magari, a preferirlo) a Charlot. Ma la stralunata potenza comica di Keaton cominciò a declinare negli anni Trenta, dopo l'avvento del sonoro.

IL MESSICO DI EJZENSTEJN

Dopo il successo internazionale de La corazzata Potëmkin e dei successivi Ottobre e La linea generale, la Paramount fece un contratto al regista per realizzare due film: L'oro di Sutter, su suo soggetto originale, e Una tragedia americana dal romanzo di Dreiser. Ma, arrivato ad Hollywood nel 1930, Ejzenstejn fu fatto oggetto di pesanti attacchi politici e, nonostante avesse già consegnato le sceneggiature, la Paramount ruppe il contratto. Insieme ai collaboratori Aleksandrov, aiuto-regista, e Tissé, operatore, Ejzenstejn si trasferì in Messico per realizzare un progetto del romanziere Upton Sinclair: un ritratto messicano in quattro episodi, dal titolo Que Viva Mexico!. Il regista girò sul posto una sterminata quantità di materiale: circa 65 mila metri di pellicola; ma per dissensi con Sinclair il film rimase interrotto e Ejzenstejn tornò in URSS.
A sua insaputa, furono montate versioni molto parziali: Lampi sul Messico, Tempo nel sole (1940) e le antologie Giorno di morte e Ejzenstejn in Messico. Una piccola parte di materiale fu anche utilizzato per Viva Villa (1934) di Jack Conway.

CHAPLIN

La fama mondiale di Chaplin come autore cinematografico si consolidò specialmente dopo il 1923, con A woman of Paris, con cui il regista iniziò la serie dei lungometraggi che non avrebbe più abbandonato. Ma non è azzardato sostenere che l'arte chapliniana è già tutta esibita nelle numerosissime comiche a corto e mediometraggio realizzate nel decennio precedente. Quando, nel 1913, Charles Spencer Chaplin si scritturò per la Keystone di Mack Sennett, a 150 dollari la settimana, aveva 24 anni. Figlio d'arte (il padre era un comico, la madre una cantante), aveva esordito a 5 anni sul palcoscenico di un teatro di varietà, a Londra, dove era nato il 16 aprile 1889 (morirà, in Svizzera, nel 1977). Presto orfano di padre, conobbe la vita misera dei quartieri popolari londinesi e da essa trasse nutrimento la sua risentita sensibilità sociale. Arrivò negli Stati Uniti con la compagnia di Fred Karno, ed ebbe immediato successo in spettacoli quali A Night in English Music Hall e A Night in a London Club rimasti in cartellone per tre anni. Passato al cinema lavorò alla Keystone per tutto il 1914, girando 35 comiche a una o due bobine, prima soltanto come interprete poi anche come soggettista e regista. è il periodo dell'apprendistato. Chaplin ha il nomignolo di Chas e recita, per lo più, al fianco di Fatty Arbuckle e Mabel Normand.
Tuttavia, il successo non si fa attendere, se l'anno successivo Chaplin realizza 16 comiche per la Essany, che lo ha scritturato a 1250 dollari la settimana. è qui che, staccandosi dallo stile delle «torte in faccia», si definisce il personaggio Charlot (Charlie, per i Paesi di lingua anglosassone) sia esternamente (i baffetti, le scarpe troppo grandi e la giacchetta troppo piccola, la bombetta e il mulinante bastoncino) sia internamente (lo spirito libero e solitario del tramp, del vagabondo cui il mondo è ostile, la solitudine dell'omino deluso da qualche amore infelice, la rassegnazione e la speranza espresse dai caratteristici finali in cui Charlot si avvia lungo la strada deserta del domani), con una ben dosata mistura di patetismo e di comicità. I film charlottiani gradatamente si allungano fino alle quattro bobine di Carmen, una parodia della famosa storia di Mérimée in cui compare Edna Purviance, diventata la sua partner fedele. L'escalation dell'omino con la bombetta è prodigiosa Nel 1916 è sotto contratto della Mutual a 10 mila dollari la settimana e i suoi film sono ormai totalmente charlottiani: tutti costruiti su di un incalzante contesto di gag dall'estrosa malizia intorno alla figura dello sradicato vagabondo, costantemente respinto da quelli a cui offre amicizia o amore: Il vagabondo, La strada della paura, L'immigrante, ecc.
La matrice della comicità charlottiana è quella classica: l'individuo che tenta di farsi accettare da una società ostile e in questo patetico sforzo produce grotteschi sconquassi. Ma Chaplin ne allarga i confini culturali e ne moltiplica le possibilità poetiche, giungendo al malinconico e, insieme, arguto ritratto di un'umanità a tutto tondo colta nelle quotidiane disavventure dell'esistenza, alle prese con l'emarginazione sociale, la prepotenza dei forti, il sospetto della polizia. Un'umanità cui è concesso l'unico spazio della strada, la cui sola solidarietà possibile è quella di un cane o di un bambino; ma tuttavia capace di una sopravvivenza ostinata, frutto di scaltri stratagemmi, che, per la loro assurdità, producono un riso alonato di amarezza. Passato alla First National, con un contratto di un milione di dollari, Charlot consegna il suo messaggio a film come Vita da cani, Charlot soldato e, soprattutto, Il monello (1921) e ll pellegrino (1923), la cui dimensione, rispettivamente di sei e quattro bobine, testimonia della maturità chapliniana per il racconto a lungometraggio.
Naturalmente, non si tratta solo di un metro quantitativo, ma di un raggiunto equilibrio narrativo che consente a Charlot di sviluppare nelle sue storie tanto l'esilarante rosario delle gags del clown quanto il patetico sentimento della malinconia esistenziale, in un racconto ricco di allusioni e pienamente risolto sul piano dell'arte, cui contribuisce uno stile semplice e diretto. La tecnica cinematografica di Chaplin è (e resterà sempre) esente da ogni tipo di forzatura intellettuale, fondata essenzialmente sul ritmo delle immagini e sulla loro interiore forza espressiva. è difficile trovare nelle sue opere l'uso effettistico del montaggio o il gusto dei movimenti di macchina sofisticati. Charlot racconta con chiarezza e straordinario senso sintetico, animando le inquadrature di particolari illuminanti e di acuta verità psicologica. E proprio di intonazione eminentemente psicologica è, nel 1923, il suo primo lungometraggio (8 bobine), Una donna di Parigi, rimasto isolato nella produzione chapliniana almeno fino a Monsieur Verdoux. La trama s'incentra sull'amore contrastato di due giovani parigini e termina drammaticamente con la morte dell'innamorato. Chaplin compare nel film soltanto in una piccola parte di fianco e la comicità vi è assente (il sottotitolo suona Un dramma del destino). Edna Purviance si rivela intensa interprete drammatica, ben fiancheggiata da Adolphe Menjou.
Chaplin produsse Una donna di Parigi per la United Artists, che aveva fondato con Griffith, Pickford e Fairbanks, come i successivi La febbre dell'oro (1925) e Il circo (1928) in cui ritorna l'impatto comico-patetico tipicamente charlottiano e l'omino con la bombetta ricompare al centro della storia: tra i cercatori d'oro del Klondike, nel primo film, e tra la colorita umanità del circo equestre, nel secondo. Mentre La febbre dell'oro termina lietamente con il protagonista divenuto ricco e amato dalla ragazza dei suoi sogni, il finale de Il circo riprende quelli delle comiche precedenti: con il solitario vagabondo che si allontana lungo la strada polverosa avendo appreso che la giovane acrobata di cui si era innamorato è legata ad un altro. Ma in entrambi si incontra, accanto al sentimento di un'irreparabile solitudine umana, lo sbrigliarsi della fantasia di Chaplin in una serie di irresistibili trovate di mimica comicità: come il pranzo con le suole e i lacci da scarpe divenuto proverbiale in La febbre dell'oro.
Dopo la scelta del lungometraggio, il lavoro di Chaplin segue linee meticolosissime: la sua apparente semplicità espressiva nasconde una preparazione che, per un film, può durare tre o quattro anni. Così, dobbiamo aspettare il 1931 per vedere Luci della città e il 1936 per vedere Tempi moderni. Nel frattempo, è avvenuta la rivoluzione del sonoro, che Chaplin utilizza nel suo linguaggio, pur senza adottare il parlato, come incentivo di comicità (ad esempio, il numero di cabaret in cui, ricordando le sue origini, interpreta in maniera esilarante la canzoncina lo cerco la Titina). Se Luci della città ricalca i noti moduli narrativi, con il vagabondo che carpisce ad un milionario ubriacone il denaro necessario per curare una fioraia cieca e rinuncia a rivelarsi alla ragazza che ha riacquistato la vista, Tempi moderni vive sul lievito di un umorismo beffardo, di una clamorosa ironia che toglie a bersaglio la società meccanizzata e satireggia la religione della macchina colpevole di annullare la libertà dell'individuo. Un'intuizione anticipatrice e un discorso critico la cui attendibilità è verificabile anche oggi.
Con Il grande dittatore (1940 Chaplin decide finalmente di adottare il parlato ed i dialoghi, probabilmente colpito dalle possibilità di satireggiare l'allucinante logorrea dei discorsi hitleriani. Il film, che si regge sugli equivoci derivanti dalla stretta somiglianza tra il Führer e un barbiere ebreo, è, infatti, una spietata messa in berlina del nazismo e del suo capo. è qui che avviene la morte cinematografica dell'omino Charlot: d'ora in avanti Chaplin interpreta personaggi diversi (ma l'acme de Il grande dittatore è ancora un momento tipicamente charlottiano: la danza del mappamondo, in cui Hitler sogna di schiacciare sotto i suoi piedi tutto il mondo), come in Monsieur Verdoux (1947) e in Luci della ribalta (1953). Attraverso la storia del vecchio clown londinese Calvero e dei suoi sforzi per ridare fiducia ad una giovane ballerina sull'orlo del suicidio, Chaplin consegna qui allo spettatore una testimonianza autobiografica e della sua arte straordinariamente toccante. Dopo una vita sentimentale molto avventurosa, Chaplin trovò la serenità nel matrimonio con Oona O'Neill, figlia del drammaturgo Eugene. Ma le molte relazioni del passato e un'accusa di comunismo non piacquero agli americani dell'età maccarthista e Chaplin tornò in Europa.
Fece ancora due film minori: Un re a New York (1957) e La contessa di Hong Kong (1967), con Brando e la Loren, entrambi girati in Inghilterra. Hollywood ha tentato un'imbarazzata discolpa conferendogli nel 1971 un premio Oscar alla carriera: troppo poco per il più sensibile poeta che il cinema abbia avuto.
Charlie Chaplin, in arte Charlot, in "Luci della città"


DREYER

La passione di Giovanna d'Arco, girato in Francia tra il 1927 e ii 1928, è il capolavoro di Carl Theodor Dreyer (1889-1968). Il regista danese aveva già girato altri lungometraggi, ma senza raggiungere quel rigore espressivo e quell'intensità drammatica che lo rendono ineguagliato maestro. Qui si manifesta l'eccezionalità dello stile di Dreyer, con quella meticolosa analisi psicologica dei personaggi affidata a primi piani rivelatori. Il messaggio filmico del regista è anche un messaggio di fede religiosa spinta fino all'ascetismo, così bene risaltante nel volto di Renée Falconetti, ispirata interprete di Giovanna. Dopo una parentesi di nordica magia (Vampiro, 1931), Dreyer torna al prediletto motivo religioso con due film spasimati e solitari: Dies Irae, 1943, e Laparola, 1955, importante segnale di umanizzazione della fede: è più vicino al Signore un folle, che si crede Cristo dei suoi intolleranti ministri. Il carattere assolutamente privo di concessioni del cinema di Dreyer non gli consentì che di fare pochi film. L'ultimo, Gertrud (1964) è una sorta di riflessione di Dreyer sulla propria opera.

STROHEIM

Fu Rapacità (Greed, 1923), il film che segnò l'acme del contrasto tra Eric von Stroheim e i produttori hollywoodiani. Il regista austro-americano, ispirandosi ai grandi narratori francesi dell'Ottocento, vi aveva costruito una sorta di romanzo cinematografico corale, un ritratto violento ed acre della borghesia europea dominata dall'ossessione del danaro, autentico simbolo e mito della società capitalistica. L'impietoso realismo di Stroheim, ma più ancora la lunghezza del film che la Metro rimaneggiò irreparabilmente riducendolo da 50 a 10 bobine, fece decretare l'ostracismo al regista. Stroheim (1885-1957) tentò ancora la carta di Queen Kelly, interpretato e prodotto da Gloria Swanson su finanziamento di Joseph Kennedy che la proteggeva; ma anche questo progetto andò in fumo per le concezioni grandiose del regista. Il materiale girato che ci resta, comunque, è di straordinaria qualità drammatica, come gli altri film diretti da Stroheim: Femmine folli (1921), Donne viennesi (1922), La vedova allegra (1925), Sinfonia nuziale (1926) che, tutti insieme, costituiscono un'interpretazione agghiacciante della mortuaria inconsistenza della società asburgica dietro le apparenze della sua fastosa eleganza. Anche come interprete, Stroheim lasciò un segno rilevante: almeno nella raffigurazione dell'ufficiale prussiano in La grande illusione e dell'ex regista divenuto maggiordomo in Viale del tramonto.

HITCHCOCK

Cinquantatré sono i film diretti da Alfred Hitchcock in un arco di tempo che va oltre il mezzo secolo (Il giardino del piacere, sua prima opera è del 1925), ma il regista (1899-1980) non fu subito considerato il maestro del suspense oppure «Il mago del brivido». Per cominciare a godere di una certa fama internazionale dovette attendere una decina d'anni. Mentre Ricatto, del 1929, e Omicidio, del 1930 sono due timide anticipazioni, il vero «Hitch» cominciò a venir fuori nel 1934 con L'uomo che sapeva troppo e condusse a perfezione il poliziesco inglese con i successivi Il club dei 39, L'agente segreto, Sabotaggio, Giovane e innocente, La signora scompare che uscì ai primi del 1939 ma conteneva già accenti di inquietudine per il conflitto imminente. Nel 1940, dopo l'insolito La taverna della Giamaica, cucito su misura per Charles Laughton, Hitchcock ripara negli USA iniziando una seconda carriera.
La inizia favorevolmente con due variazioni - drammatica e ironica - di una tensione legata all'ambiguità in Rebecca e Il prigioniero di Amsterdam. Ma, legati ad esigenze belliche, I sabotatori e I prigionieri dell'oceano, tra il 1941 e il 1943, interrompono la coerenza di due altri pregevoli biglietti da visita del regista inglese: Il sospetto e L'ombra del dubbio. Un polpettone vagamente psicanalitico, Io ti salverò (1945) e un mediocre film giudiziario Il caso Parradine (1947), pongono fine al rapporto tra il regista e il produttore impiccione David o' Selznick. Tra il primo titolo e il secondo, Hitchcock aveva prodotto da solo Notorius, divenuto un film da culto. Ancora qualche tentativo per aggiustare il tiro. In Nodo alla gola (1948) il regista sperimenta l'insolito linguaggio a piani-sequenza che è l'opposto del montaggio rapido che preferisce. Poi due anni dopo, con Paura in palcoscenico, comincia il periodo migliore. Nel 1952 l'educazione cattolica gli suggerisce lo confesso, in cui un sacerdote riceve la confessione di un omicidio ed ha il problema morale di rivelarne il tenore.
Tra il 1954 e il 1956, tre film privilegiano il versante ironico del regista: Finestra sul cortile, Caccia al ladro, La congiura degli innocenti. Poi tra il 1958 e il 1964 i suoi capolavori: La donna che visse due volte, Intrigo internazionale, Psyco, Gli uccelli, Marnie, in cui la linearità dello stile riesce ad esprimere inquietanti risvolti di male, quando non, addirittura, la presenza del diavolo in mezzo agli uomini. Dopo due titoli di routine, Il sipario strappato (1966) e Topaz (1969), Hitchcock chiude con due film giocati con l'antica malizia del maestro del brivido: Frenzy (1971) e Complotto di famiglia (1975). Un'intelligenza vivacissima, il gusto del divertimento e la libertà di non dipendere dai produttori hanno consentito ad «Hitch» di diventare qualcosa di unico nel panorama del cinema mondiale.

HOLLYWOOD ÜBER ALLES

Il film sonoro giunge a rincalzare la supremazia mondiale esercitata da Hollywood controbilanciando presso il pubblico, con la novità della sua proposta, gli effetti negativi della crisi economica del 1929, e dotando la produzione di un ulteriore genere di successo, il musical, in cui si scarica l'enorme patrimonio delle riviste di Broadway, delle canzoni, della musica popolare e del jazz. Tuttavia l'affermazione del sonoro fu contrastata poiché non tutti erano persuasi delle sue potenzialità e non pochi temevano il suo impatto sulle abitudini del mercato. Fu quasi per disperazione che la Warner Bross, in crisi momentanea, giocò questa carta tastando il terreno, nel 1926, con un Don Giovanni che sincronizzava in colonna sonora alcune romanze e alcuni dialoghi precedentemente incisi su dischi. Lo stesso regista, Alan Crosland, tentò l'anno dopo un più radicale esperimento di fonofilm con Il cantante di jazz, centrato sull'interpretazione di Al Jolnson che ne replicò in un cantante pazzo (1928) il successo travolgente. Al Jolnson era un singer (= «cantante») bianco che amava esibirsi truccato da nero come gli artisti del burlesque; ma già nel 1919 King Vidor impiegò autentici interpreti di colore in Allelujah!, vicenda ambientata nel Sud, affidata alla suggestione degli spiritual e della musica nero-americana e primo esempio di una cinematografia interessata alla vita e alla musica dei neri d'America che ha avuto saggi recentissimi in Round Midnight e Bird.
Il filone musicale di Hollywood favorì il recupero della vecchia operetta mitteleuropea, soprattutto con Ernst Lubitsh (1892-1947): L'allegro tenente (1931), Il principe consorte e Un'ora d'amore (1932), La vedova allegra (1934, straordinaria prova ritmica e cromatica nell'esemplare gioco dei bianchi e dei neri). Il protagonista, lo straparigino Maurice Chevalier, formò una coppia affiatatissima con la soprano leggera statunitense Jeanette Mac Donald godibile anche in Amami stanotte (1933) di Rouben Mamoulian. In seguito, la Mac Donald strinse un'efficace alleanza canora con Nelson Eddy (Rose Mary Primavera, Rosalie, tra il 1936 e il 1938). Il musical autoctono, invece, crebbe quasi interamente sulla insolita facoltà inventiva del coreografo e regista Busby Berkeley (1895-1976): Quarantaduesima strada, La danza delle luci, Viva le donne, Il museo degli scandali, Donne di lusso, ecc. Fedele al suo stile bizzarro ed estremamente movimentato, Berkeley fece in tempo sulla fine dei Trenta, a propiziare la carriera di Judy Garland in alcuni musical interpretati al fianco di Mickey Rooney. Più sul genere del film-rivista furono le serie annuali delle Follie di Broadway che univano scene brillanti e numeri di danza e canto, come nel varietà. Il massimo dell'eleganza e del gusto spettacolari sta, comunque, nei film, prodotti dalla RKO, (Roberta, Cappello a cilindro, Seguendo la flotta, Voglio danzar con te, ecc.) interpretati dall'irresistibile coppia Fred Astaire-Ginger Rogers tra il 1935 e il 1939. Ma il musical anni Trenta ebbe anche altri divi di successo: Eleanor Powell, Ruby Keeler e Dick Powell, ad esempio.
L'ingente produzione hollywoodiana si reggeva sull'efficienza delle maggiori case produttrici (Metro, Warner Bross, RKO, Universal, Fox: le cosiddette Majors), sulla riconoscibilità delle opere prodotte da troupes stabili di registi, sceneggiatori, direttori della fotografia (è leggendaria la figura di William Daniels che seppe amorevolmente «inventare» la fotogenia della Garbo, la quale, tra i registi, dette la sua piena fiducia a Clarence Brown), attori protagonisti, comprimari, musicisti, ecc.; nonché sull'intraprendenza e l'intuito di capi della produzione come David O'Selznick (il vero autore di Via col vento) e di Irvin Thalberg, il tycoon (= «magnate») raffigurato da Scott Fitzgerald ne Gli ultimi fuochi. Il soddisfacimento dell'immaginario collettivo attraverso l'autoproiezione degli spettatori sui divi e dentro le storie appositamente confezionate a loro misura fece definire Hollywood come «La fabbrica dei sogni». Le due massime incarnazioni del divismo femminile, Garbo e Dietrich, erano state importate, come molti registi, dall'Europa; ma la cinematografia USA seppe creare, accanto al «Re» per antonomasia, Clark Gable, una riserva divistica nazionale, cui non erano estranei rilevanti talenti drammatici (Bette Davis, Katherine Hepburn, Barbara Stanwich, Norma Shearer, Joan Crawford, Frederich March, Spencer Tracy, Henry Fonda, Edward G. Robinson, Charles Laughton, Leslie Howard - gli ultimi due di provenienza inglese -, Charles Boyer di provenienza francese) oppure commedianti di elegante espressività (William Powell, Cary Grant, James Stewart, Gary Cooper, Carole Lombard, Irene Dunne, Rosalind Russell, Mirna Loy, e i giovani Robert Taylor e Tyron Power).
Analogamente, accanto al musical, Hollywood condusse in questi anni al massimo livello altri generi autoctoni come il western, il dramma (o melodramma) gangsteristico, la commedia sofisticata. La personalità che maggiormente contribuì a definire i contorni autentici di un cinema statunitense fu Howard Hawks che dette opere molto significative in ciascuno di questi generi. Il filone gangster ebbe cultori intensi in Mervyn Le Roy (Piccolo Cesare, Io sono un evaso con Paul Muni), Mamoulian (Le vie della città), William Wellman (Nemico pubblico con James Cagney), Van Dyke (Le due strade), Ben Hecht (Delitto senza passione), Archie Mayo (La foresta pietrificata), William Wyler (Strada sbarrata), e registrò anche i thrillers espressionisti di Fritz Lang Furia e Sono innocente realizzati tra il 1936 e il 1937. Nel 1941 apparve Il mistero del falco di John Huston. George Cukor (1899-1983) e Frank Capra (1897) emersero nella commedia, anche se la loro fu piuttosto una commedia brillante che non «sofisticata» (specialmente quella di Capra interprete dell'ottimismo e della fiducia correnti nell'età di Roosevelt). Nel genere «sofisticato», sorretto dal gioco di una comicità stravagante, maliziosa e impassibile, Capra firmò Accadde una notte (1934), Gregory La Cava Letto di rose (1932) e L'impareggiabile Godfrey (1936), oltre al solito Lubitsch con Mancia competente (1932), Partita a quattro (1933), Ninotchka (1939), Vogliamo vivere (1942). La commedia sofisticata trovò un epigono in Preston Sturgess con due titoli del 1941: Lady Eva e I dimenticati. La recuperò successivamente anche Cukor con Nata ieri (1956) costruita al servizio degli estri deliziosamente svagati di Judy Holliday. Il western, infine, fu condotto al vertice dell'arte da John Ford (1895-1973) che realizzò nel 1939 Ombre rosse, uno dei più bei film dell'intera storia del cinema.
La produzione degli anni d'oro di Hollywood, tuttavia, fondò in gran parte le sue fortune commerciali sulle sfarzose storie in costume, i drammoni sentimentali e la riduzione di famose opere letterarie e teatrali, poiché i nuovi produttori non la pensavano molto diversamente dal vecchio Griffith. Si incontrano perciò titoli significativi: Le due città e Davide Copperfield (da Dickens), Anna Karenina e Resurrezione (da Tolstoj), Il sergente di ferro (da Hugo), Giulietta e Romeo (da Shakespeare), Margherita Gauthier (da Dumas figlio), La voce nella tempesta (dalla Brontë), Piccole donne (dalla Alcott), La buona terra (da Ayn Rand), Rebecca (da Daphne Du Maurier), Avorio nero (da Allen), ecc. Il più perfetto meccanismo spettacolare mai uscito dagli studi hollywoodiani, Via col vento (1940), è la riduzione dell'omonimo best seller della Mitchell. Nel grandioso laboratorio hollywoodiano non mancano le invenzioni meccaniche dai mostri (King Kong, Frankenstein) ai gentili eroi disneyani di carta.

IN EUROPA INVECE...

Di fronte a una tanto invadente vitalità, le cinematografie europee non riuscirono ad organizzare un'efficace linea di resistenza. Vi provò quella inglese che poteva vantare il fiore all'occhiello dei documentaristi Grierson, Cavalcanti, Wright e Flaherty, e la crescita di un cineasta d'eccezione, Alfred Hitchcock, punito tuttavia dall'egemonia USA sul mercato. Un produttore-regista oriundo ungherese, Alexander Korda, con la collaborazione dei fratelli Zoltan (regista anch'esso) e Vincent (scenografo), avendo centrato un grosso successo internazionale con Le sei mogli di Enrico VIII (1933) che aveva consacrato attori come Charles Laughton, Merle Oberon e Robert Donat, tentò di mettere in piedi un sistema produttivo all'americana che sfornò, dal 1934 alla guerra, alcune opere di impegno ambizioso come La primula rossa, Bozambo, La danza degli elefanti, Il principe Azim, Elisabetta di Inghilterra, Rembrandt, Le quattro piume, Il ladro di Bagdad. Questo progetto dovette arrendersi per l'eccessiva esposizione finanziaria che implicava. Dopo la fine del conflitto, Korda ripiegò sulla posizione di produttore indipendente, aiutando la carriera di Carol Reed, di cui produsse Il terzo uomo (1949), e appoggiando la realizzazione del Riccardo III di Laurence Olivier, nel 1956.
La possibilità economica di impegnarsi in realizzazioni di ampio respiro non mancò, invece, alla cinematografia sovietica statalizzata, nelle cui file militavano diversi registi di valore. Ma qui gli orientamenti ideologici e propagandistici condizionavano irrimediabilmente l'esportabilità della produzione. Seguendo le direttive di Zdanov, autorevole quanto miope sostenitore del realismo socialista, la critica e gli organi professionali rigettarono come formalistici molti dei migliori film sonori del periodo. Il buon livello artistico di Ciapaev (1934) dei fratelli Vasilev, sensibile ritratto umano e sociale di un eroe rivoluzionario, finì per funzionare come alibi per la perentoria richiesta di vedere il cosiddetto «eroe positivo» al centro di film che avrebbero dovuto illustrare Le qualità del nuovo cittadino sovietico uscito dalla rivoluzione. Anche a Dziga Vertov, in Tre canzoni su Lenin (1934), era riuscito di fondere stile e ideologia, al contrario di quanto accadrà a Pudovkin nell'agiografico Lenin nell'anno 1918 (1939). I vecchi fondatori del FEKS, Kosintzev e Trauberg, assorbirono il presupposto politico nella finezza psicologica e nella verità umana di Ideologia di Massimo (1937), storia di un comunista negli anni tra le due rivoluzioni, 1905-1917, dove veniva anche messa a frutto la lezione intimista di un'opera del 1931, Il cammino verso la vita, in cui Nikolaj Ekk affrontava il problema dell'infanzia. Ma il clima era reso pesante dallo stalinismo e lo stesso Ejzenstejn ne fu travolto. Prima, per le critiche mosse dalle gerarchie sovietiche alla sua sfortunata avventura in Messico; poi, per l'effetto indiretto del patto russo-tedesco che fece togliere dalla programmazione Alexander Nevskj (1938) epica rievocazione della vittoria russa sui Cavalieri teutonici; infine, per il sospetto di allusioni a Stalin nel ritratto solitario e tirannico di Ivan il terribile (1942). Marginali, anche se impreziositi dal recupero della vivacità linguistica futurista, i film musicali di Grigorij Aleksandrov, allievo di Ejzenstejn: Tutto il mondo ride (1934), Il circo (1936), Volga Volga (1938).
L'ideologia fu causa anche della decadenza del cinema tedesco dopo l'avvento del sonoro. Mentre si profila imminente il massiccio esodo dei cineasti attivi a Berlino per il nazismo e le persecuzioni razziali, il 1931 si presenta come l'ultimo anno visitato da una produzione variamente significativa. Ragazze in uniforme, di Leontine Sagan, sul tema scottante dell'educazione repressiva e dell'omosessualità femminile, Il congresso si diverte, del solitamente mediocre Erik Charrell, garbata operetta in costume con la coppia Lilian Harvey-Willi Fritsch, Kuhle Wampe, diretto da Statan Dudov, sceneggiato da Brecht e prodotto dal Partito comunista tedesco, squarcio di vita del proletariato berlinese, si affiancano ai già citati film di Lang e di Pabst. Nei disegni di Goebbels, la Ufa avrebbe dovuto conquistare il mercato internazionale e offrire immagini glorificatrici del nazismo. Al primo compito il colosso di Berlino attese con una politica produttiva che pareva ricalcare certi indirizzi hollywoodiani (si arrivò a costruire divi sul modello di quelli USA: Marika Rokk come Ginger Rogers, Zarah Leander come risposta al fascino di Dietrich e Garbo, ecc.). Al secondo provvidero alcuni registi ideologizzati, tra i quali la più interessante fu Leni Riefenstahl, autrice di due documentari di intensa suggestione figurativa: Triumph des Willens (1934), sul congresso del partito nazionalsocialista a Norimberga, e, diviso in due parti, Olimpia (1938), sulle olimpiadi berlinesi del 1936 illustrate come mitizzazione dell'arianesimo. Forse, il più impegnato a seguire le direttive di Goebbels fu Veidt Harlan, cui si devono l'antisemita Suss l'ebreo (1940), l'agiografia in chiave nazista di Federico II intitolata Il grande re (1942), Kolberg (1944) epica rievocazione di uno storico capitolo dell'eroismo tedesco, ma anche l'interessante La città d'oro (1942) che utilizza (come il successivo Baron di Munckhausen di Hans Albers) la straordinaria resa tecnica dell'Agfacolor.
Più articolati gli indirizzi assegnati dal Governo fascista al cinema italiano. Pochi i film di esaltazione del regime (Camicia nera di Forzano, Vecchia guardia di Blasetti, I condottieri di Luigi Trenker); non molti, tra il 1936 e il 1938, quelli dedicati all'avventura africana (Sentinelle di bronzo di Marcellini, Squadrone bianco di Genina, Scipione l'africano di Gallone, Il grande appello di Camerini, Luciano Serra pilota di Alessandrini). Sulla guerra, infine, hanno un pregevole piglio documentaristico Uomini sul fondo e Alfa Tau del comandante De Robertis, mentre di più scoperta propaganda risultano L'assedio dell'Alcazar e Bengasi di Genina e Giarabub di Alessandrini. Ma l'interesse mostrato dal regime per il cinema (con la supervisione di Mussolini che aveva rispolverato lo slogan di Lenin: «Il cinema è l'arma più forte») ebbe altri obiettivi: più che creare consenso, era interesse primario distogliere dal dissenso. Di qui, la produzione evasiva e superficiale dei cosiddetti «telefoni bianchi» di cui potrebbero essere esempi perfetti i quattro film realizzati da Max Neufeld tra il 1939 e il 1940, a conflitto incombente: Ballo al castello, Assenza ingiustificata, Se potessi avere mille lire al mese, Cento lettere d'amore. Inoltre, l'imperante visione autarchica imponeva di raggiungere una competitività commerciale capace di eliminare dai circuiti nazionali i film americani. Il Governo si impegnò materialmente in questa direzione con la creazione del grande complesso produttivo di Cinecittà (1937), la fondazione del Centro sperimentale di cinematografia, una politica di coinvolgimento del capitale privato, le provvidenze a difesa del film italiano. In tal modo, nonostante la guerra, si arrivò, nel 1941 e 1942, a superare i cento titoli annui. La qualità, naturalmente, era un'altra cosa.
Un sensibile risveglio artistico e un miglior livello produttivo erano stati propiziati, all'inizio del decennio, dall'attività della nuova Cines affidata alla direzione di Emilio Cecchi che vi coinvolse giovani sceneggiatori, come Mario Soldati e Aldo Vergano, e registi promettenti. Uscirono dalla Cines film come Gli uomini che mascalzoni di Mario Camerini, 1860 e La tavola dei poveri di Alessandro Blasetti, Acciaio di Walter Ruttman su soggetto di Pirandello. Camerini e Blasetti furono i due autori di punta del periodo; e il loro lavoro preparò, con il contributo del soggettista e sceneggiatore Cesare Zavattini, l'avvento del neorealismo. Il primo (1895-1981) coltivando una sorridente attenzione alla vita di tutti i giorni raccontata con controllata e talvolta maliziosa levità sentimentale (il cosiddetto «realismo rosa»), diresse, oltre a Gli uomini che mascalzoni, Darò un milione (1935), Ma non è una cosa seria (1936), Il signor Max (1937), Grandi magazzini (1939): tutti incentrati sull'interpretazione di Vittorio De Sica (insieme ad Alida Valli e Amedeo Nazzari, unico «divo autarchico»). Il secondo (1900-1987), più eclettico ed esuberante, unì al gusto del racconto popolare e piccolo borghese (da Sole, 1929, a Quattro passi tra le nuvole, 1942, e, nel dopoguerra, Prima comunione, 1950) l'arioso recupero dell'avventura un po' fantasticata e beffarda, tra storia e leggenda: da Ettore Fieramosca (1938) a Un'avventura di Salvator Rosa (1939) da La corona di ferro a La cena delle beffe entrambi nel 1941. Anche se cercò di governarne le sorti, il regime non ottenne mai l'adesione dei cineasti italiani.
Verso il 1940, tra le leve più giovani, prese spazio un indirizzo che, non potendo affrontare i problemi della realtà e non volendo appiattirsi nella conformistica evasione dei «telefoni bianchi», scelse di rifugiarsi nella formalistica trascrizione sullo schermo di capolavori letterari: Renato Castellani (Un colpo di pistola e Zara), Mario Soldati (Piccolo mondo antico, Malombra), Alberto Lattuada (Giacomo l'idealista), Ferdinando Maria Poggioli (Sissignora, Gelosia, Le sorelle Materassi, Il cappello da prete).
Un bilancio francamente positivo è quello del cinema francese rinvigorito dal sonoro. Nonostante alcune perplessità iniziali (in Sotto i tetti di Parigi, 1930, i dialoghi sono coperti dai rumori della vita cittadina o attutiti per la distanza), René Clair (1898-1981) finì per arricchire il suo stile proprio con il sonoro creando un inimitabile contrappunto tra immagine e suono. Con Il milione (1931) e 14 luglio (1933) il regista ritorna con effetti di straordinaria felicità espressiva al clima di libero e ironico vaudeville già presente nelle sue ultime realizzazioni mute. Per contro, in A me la libertà (1932) e L'ultimo milionario (1934) entrano nella sua poetica l'attenzione ai problemi sociali e la satira dell'alienazione dell'individuo davanti alla macchina che anticipa il Chaplin di Tempi moderni. Per l'insuccesso commerciale de L'ultimo milionario, Clair emigrò in Inghilterra dove diresse due opere di fine comicità: Il fantasma galante (1936) e Vogliamo la celebrità (1938) con Maurice Chevalier. Dal 1940 fino al dopoguerra fu ad Hollywood riuscendo a realizzare tre piccoli capolavori, ricchi di incantevole spirito: L'ammaliatrice, 1941, con Marlene Dietrich, Ho sposato una strega, 1942, Accadde domani, 1944, intriso di una fantasia quasi surreale. Tornato in Francia, siglò un altro film indimenticabile, Il silenzio è d'oro (1947, ancora con Chevalier), in cui il sentimento d'amore per Parigi si unisce all'affettuosa nostalgia per il cinema delle origini.
Le lontane radici naturalistiche accomunano, nell'impronta realistica e popolare, tre autori come Jean Renoir Jacques Feyder e Julien Duvivier. Renoir (1894-1979), figlio del famoso pittore impressionista Auguste, è uno dei maestri del cinema mondiale. L'adesione alle posizioni del Fronte Popolare fa evolvere il naturalismo zoliano de La cagna (1931) in un robusto umanesimo ben radicato nella visione sociale della vita, il cui primo frutto è Toni (1934) di cui ebbe a ricordarsi il Visconti di Ossessione. Il delitto del signor Lange (1935), Verso la vita (1936) e La scampagnata (1936) sono tre differenti metafore narrative sullo spirito del Fronte popolare, mentre La Marsigliese (1937) è una sontuosa rievocazione della Rivoluzione ricca di riferimenti all'attualità. Il generoso umanitarismo del regista trovò accenti consapevoli di verità, lucida analisi ideologica e commossa partecipazione nel messaggio pacifista del suo capolavoro, La grande illusione (1937). Dopo un ritorno a Zola nell'intensa drammaturgia de L'angelo del male (1938), con La regola del gioco (1939) Renoir riuscì ad assorbire l'amarezza per la guerra incombente nell'ironica rappresentazione dei malesseri e del fallimento democratici di fronte alla follia hitleriana. Emigrato ad Hollywood, il regista firmò due film significativamente centrati sul rapporto tra l'uomo e la terra (La palude della morte, 1941, e L'uomo del Sud, 1945); rapporto che ritorna ne Il fiume, girato in India nel 1952.
Feyder (1888-1948), tipico esempio di cineasta internazionale, dette, tra il 1933 e il 1934, al cinema francese, due film di levatura non eccezionale (Il grande gioco e Pensione Mimosa); ma toccò i vertici dello stile in Kermessé eroica (1935) in cui un intrigo erotico-avventuroso ambientato nelle Fiandre del XVI secolo è raccontato sullo schermo con il corposo colore figurativo della pittura fiamminga. Il tema della fatalità, del disilluso pessimismo sulla vita, non privo di lontane influenze religiose, trattato con un realismo cupo che si avvale della maestria del linguaggio cinematografico ma sconta una certa dozzinalità letteraria, distingue i film di Duvivier (1896-1967): Pel di carota (1932), La bandera (1935), La bella brigata (1936), Il bandito della casbah (1937), Carnet di ballo (1938) in cui si rivela la forza interpretativa di Jean Gabin. Poeticamente assai più definiti, anche per l'apporto in sceneggiatura di Jacques Prévert (nipotino di Baudelaire nel considerare la città notturna come teatro della morte), i film di Marcel Carné (1909) il cui disperato realismo si riveste di una visività distillata in rarefatte atmosfere di inquietante suggestione, sospesa tra notturni sgomenti e plumbei chiarori che preannunciano la catastrofe. Il realismo da «nero» diventa quasi magico in Il porto delle nebbie (1938) e Alba tragica (1939) ancora interpretati da Gabin; si farà totalmente magico in L'amore e il diavolo (1942) e Amanti perduti (1945), superba esercitazione lirica e stilistica sulla Parigi teatrale del primo Ottocento.

QUALCHE NOME

HUSTON

Tra i migliori film di Hollywood vi è Il mistero del falco (1941), dal romanzo di Dashiell Hammett, con Humphrey Bogart nei panni del detective Sam Spade. Con questo film, Huston (1906-1987), soggettista e sceneggiatore, esordì nella regia.
La sua filmografia comprende risultati di diverso livello e impegno registico diseguale, ma indica con chiarezza la propensione di Huston per la trasposizione sullo schermo di opere letterarie: Il tesoro della Sierra Madre (1948), L'isola di corallo (1948), Giungla d'asfalto (1950), La prova del fuoco (1951), La regina d'Africa (1951), Moulin Rouge (1952), Moby Dick (1956), Le radici del cielo (1958), La notte dell'inguana (1964), Riflessi in un occhio d'oro (1967), Città amara (1972), L'uomo che volle farsi re (1975), Sangue selvaggio (1979), Sotto il vulcano (1984), sono i suoi titoli migliori, tutti con il riferimento costante-ad un modello letterario.
Tra essi, La regina d'Africa, con Bogart e Katherine Hepburn e Città amara sono due piccoli capolavori.

FORD

Due grandi filoni tematici si ritrovano nella sterminata (quasi 200 titoli) filmografia di John Ford (Sean Aloysius Freeney, 1895-1973): quello irlandese, legato alle proprie radici familiari, e quello statunitense, animato dall'amore per il Paese in cui nacque, tredicesimo figlio di una famiglia di immigrati. In quest'ultimo è compreso il ricco e affascinante gruppo di film western ai quali è principalmente legata la sua popolarità. In effetti, nel primo periodo della sua carriera registica hollywoodiana, cominciata nel 1916, Ford realizzò essenzialmente western di serie B. Ne aveva diretti una cinquantina, quando, nel 1924, firmò il suo primo capolavoro, Il cavallo d'acciaio, storia della costruzione della grande ferrovia tra Atlantico e Pacifico, voluta da Abramo Lincoln e simbolo della riunificazione nazionale dopo la guerra di secessione. Ma è significativo che, quando, nel 1920, riuscì a girare una storia non western, The prince of Avenue A, il soggetto fosse centrato sulla vita degli irlandesi di New York. E sarà d'ambiente irlandese un altro dei suoi primi capolavori, Il traditore (1935), interpretato da Victor Mc Laglen che già era comparso in due altri film fordiani d'ambiente irlandese: La canzone della mamma (1927) e La casa del boia (1928).
Il filone fu seguito da Ford fino all'ultimo: soltanto la salute malferma lo distolse dal terminare le riprese di Il magnifico irlandese nel 1965. In precedenza, lo aveva coltivato con L'aratro e le stelle (1936) dal dramma di O'Casey, Viaggio senza fine (1940) dai drammi marini di O'Neill, L'uomo tranquillo (1952), un altro capolavoro, Storie irlandesi (1957) e L'ultimo hurrà (1958). Ma è soprattutto irlandese lo spirito del bozzettismo umoristico e cordialmente stralunato che si incontra in molti aneddoti di vita militare di western come I cavalieri del Nord Ovest (1949) e Rio bravo (1950), e la sgangherata ironia pacifista di Bill sei grande! (1950) e Uomini alla ventura (1952). Considerato con frettoloso giudizio come un autore dedito alla celebrazione dei valori militari, Ford ha in realtà costantemente onorato un cinema contrario alla guerra, pacifista, conseguentemente alla sua visione cattolica e contadina della vita. è stato certamente, un memorabile evocatore di immagini della storia militare degli Stati Uniti; ma soltanto perché l'esercito (la cavalleria) entrò oggettivamente nella collettiva epopea statunitense del secolo scorso, nella sua epica avventura all'Ovest. Avventura, tuttavia, di coloni, di allevatori, di uomini e di comunità in cerca di una nuova terra sulla quale vivere e lavorare: costretti, qualche volta, ad estrarre la pistola o ad imbracciare il fucile per eliminare quei nemici che contrastavano il loro onesto e civile ideale. Uno dei più forti film contro la guerra, Ford lo realizzò nel 1928: L'ultima gioia, storia di una donna tedesca che ha perduto nel conflitto tre dei quattro figli.
Se lo spirito statunitense è squisitamente individualista, Ford gli resta fedele caratterizzando psicologicamente ciascun personaggio, ma collocandolo all'interno di una più o meno piccola comunità: la diligenza di Ombre rosse (1939) come l'automobile sgangherata di Furore (1940), l'accampamento di La pattuglia sperduta (1934) come i carri di La carovana dei Mormoni (1950), la nave di Viaggio senza fine come il villaggio di Tombstone di Sfida infernale (1946), la famiglia dei minatori di Com'era verde la mia valle (1941) come la prigione femminile di Missione in Manciuria (1965). Sembra che dell'epopea della frontiera al regista stia a cuore cogliere la tensione per le nuove fondazioni comunitarie, i loro problemi e le loro difficoltà. Nei suoi film militari l'azione bellica occupa soltanto la parte finale della storia; tutto il resto è illuminazione e descrizione dei rapporti quotidiani tra i personaggi. L'originario cattolicesimo irlandese (che gli suggerirà La croce di fuoco, 1947, da Graham Greene) isola la violenza e la priva del compiacimento. In un'opera risentita come Sentieri selvaggi (1956), l'amore per la nipote scioglie nel cuore del protagonista l'odio dovuto alla sua unione con un capo indiano e gli impedisce di ucciderla dopo averla cercata per anni a questo scopo. Perfino i Pellirosse sono accomunati nel disegno americano di Ford e fuggono dalla riserva per tornare pacificamente alla terra degli avi nello struggente Il grande sentiero (1946). E in L'uomo che uccise Liberty Valance (1962) il vecchio sceriffo si vergogna d'aver ammazzato un fuorilegge e lascia che a trarne gloria sia un altro.
Anche i film fordiani che appartengono alla routine conservano un inconfondibile segno della personalità del loro autore: una delle personalità più significative dell'intera storia del cinema. A chi gli chiedeva quali fossero i vecchi maestri che più amava, Orson Welles soleva rispondere: John Ford, John Ford, John Ford, John Ford... Per parte sua, Ford ha sempre lavorato con immutata semplicità professionale. Dentro ad ogni inquadratura il racconto si calibra attraverso la recitazione degli attori e la cura straordinaria dell'illuminazione, che tiene conto tanto del cinema espressionista europeo quanto della pittura coloniale statunitense. Il merito principale di Ford resta quello di avere conferito, attraverso l'uso della psicologia, dignità artistica e spessore umano al genere western. La fedeltà alla vena psicologica consente al regista di girare delicati ritratti storici, come quello di Lincoln giovane in Alba di gloria (1940), e movimentati quadretti ambientali, Il sole splende alto (1953), oppure umani, In nome di Dio (1948).
Ma il senso poetico più fondo del cinema fordiano sta nella qualità ampia e solenne del suo ritmo narrativo, apparentato, nel rapporto tra tempo e spazio, con quello dei classici letterari americani dell'Ottocento: c'è Melville sotto il ritmo di film come Sfida infernale e La carovana dei Mormoni.

WELLES

Nel 1939, quando Orson Welles (1915-1985) andò a Hollywood con un contratto con la RKO che lo impegnava alla realizzazione di Quarto potere, aveva soltanto 24 anni ed era già un nome celebre. Vincitore di una borsa di studio alla Todd School di Woodstock per alcuni spettacoli studenteschi, agli inizi degli anni Trenta è in Europa per studiare pittura, ma finisce attore al Gate Theatre di Dublino. A vent'anni è primo attor giovane con la famosa attrice americana Katherine Cornell; a ventidue fonda a New York con John Houseman il Mercury theatre e collabora all'iniziativa roosveltiana del Federal theatre. La sua predilezione scespiriana e il genio inventivo del regista si rivelano in due spettacoli famosi: Macbeth, interpretato da attori negri tra riti di woodou e musiche antillane, e Giulio Cesare, in abiti moderni come metafora del fascismo. A Shakespeare tornerà con tre film di memorabile resa espressiva: Macbeth (1948), visto come tragico scontro tra le pulsioni dell'inconscio e la chiarità della ragione, Otello (1952), trasferito in un clima inquietante e barbarico, Falstaff (1966), in cui compone un ritratto struggente e autunnale del grosso e gaudente personaggio e della sua solitaria vecchiaia.
Quarto potere è realizzato da Welles dopo la clamorosa provocazione con cui, l'anno avanti, dai microfoni della CBS, aveva terrorizzato gli USA facendo prendere per vera un'invasione di marziani contenuta nella sua riduzione radiofonica di La guerra dei mondi di Herbert George Wells. La stessa originalità di linguaggio, ma in un impasto meno aggressivamente giovanile, artisticamente più meditato, sta alla base di L'orgoglio degli Amberson (1942), storia della decadenza di una ricca famiglia in una cittadina del Sud, che rientra nei capolavori della filmografia wellesiana. Lo stile del regista anticipa i tempi e il gusto corrente. La critica è entusiasta, ma il pubblico resta perplesso. Inoltre Welles chiede ai produttori investimenti alti e totale indipendenza artistica; finisce pertanto sulla lista degli indesiderabili come, anni avanti, era successo a Eric von Stroheim. Dopo un meno riuscito Lo straniero (1946), il regista dirige un film-chiave della sua poetica, La signora di Shanghai (1947), in cui sviluppa un forte sentimento dell'ambiguità tra bene e male (shakespeariano anch'esso) accompagnandolo con il vertiginoso gioco barocco delle immagini. Questa volta Hollywood non gli perdona di aver smontato il cliché di Rita Hayworth, sex symbol in carica e (allora) moglie di Welles. Ai suoi film vengono apportati tagli devastanti e i suoi progetti non trovano approvazione. Il regista emigra in Europa e comincia ad autofinanziarsi con l'attività di attore in cui per altro coglie qualche interpretazione di grande risalto (Il terzo uomo, Moby Dick, ecc.). Firma ancora due thriller di classe: Rapporto confidenziale (1954) e L'infernale Quinlan (1958), la riduzione di un racconto di Karen Blixen, Storia immortale (1968), la trascrizione per lo schermo di Il processo (1962) di Kafka, l'autobiografico F come Falso (1973), una coproduzione franco-tedesco-iraniana cui affida il proprio ritratto di mago, ciarlatano ed artista. Negli ultimi anni, trascorsi nella costante ricerca di capitali, Welles ha scritto decine di sceneggiature e girato migliaia di metri di pellicola, lasciando diversi film incompiuti.
Un'immagine di Orson Welles


HAWKS

Se si dovesse indicare un regista che meglio di ogni altro incarni lo spirito e le forme del cinema statunitense, nella sua essenza più autentica e originale, passando attraverso i condizionamenti e le formule della produzione hollywoodiana senza troppo impensierirsene, altro nome non si potrebbe fare che quello di Howard Hawks. Nei suoi film ci sono il gusto di raccontare, innanzi tutto, storie bilanciate sulla commedia e l'avventura, la concretezza vitale dei personaggi e delle vicende rappresentati, la filosofia che, tra ottimismo e moralità, pone l'accento sul fare piuttosto che sul meditare. Hawks infine ha saputo esprimersi nei generi più tipici del cinema USA. Così, ad uno Scarface (1931) che costituisce il punto più alto del filone gangsteristico risponde Il fiume rosso (1948) western epicizzato tra scontri generazionali e migrazioni delle mandrie; a Ventesimo secolo (1934) saporito frutto della commedia sofisticata corrisponde Avventurieri dell'aria (1939), profilo incisivo del rapporto drammatico e cameratesco di un gruppo di piloti aerei. La commedia sofisticata fu la scelta prevalente di Hawks (1896-1977): da Capitan Barbablù (1928) a Susanna (1938), da La signora del venerdì (1940) a Colpo di fulmine (1942), da Venere e il professore (1948) a Ero uno sposo di guerra (1949), da Il magnifico scherzo (1952) a Lo sport preferito dall'uomo (1964).
Ma troviamo toni di commedia anche nei suoi western, accanto alla liricità di Il grande cielo (1952), in Un dollaro d'onore (1959), El Dorado (1967) e in quel western africano che è Hatari! (1962). Ci sono toni di commedia anche in soggetti avventurosi: Rivalità eroica (1933), Arcipelago in fiamme (1943), Acque del Sud (1944); oppure in un thriller come Il grande sonno (1946). Tra commedia e avventura per Hawks non correva differenza: si trattava di due diverse reazioni di fronte ad una situazione imbarazzante, affrontata comicamente o virilmente.

BUÑUEL

Luis Buñuel (1900-1983) ha conservato fino all'ultimo lo spirito corrosivo e provocatorio che aveva contraddistinto il beffardo anarchismo degli anni giovanili: basti pensare alle graffianti sequenze iniziali de Il fantasma della libertà (1974) o alle misteriose esplosioni terroristiche che accompagnano il racconto di Quell'oscuro oggetto del desiderio, (1977). C'è anche una certa memoria dell'esperienza surrealistica condivisa a Parigi negli anni Venti e Trenta, anche se smorzata e resa più elastica dall'intervento di una saggia e sorridente malizia. Specialmente in Bella di giorno (1967) e in Il fascino discreto della borghesia (1972) il regista pare realizzare un nuovo equilibrio espressivo per cui le sue storie, fondate sui nessi di oscure e fantasticheggianti motivazioni interiori, si snodano con una singolare naturalezza ed evidenza, con una leggerezza aggraziata e quasi musicale. Per contro, in La via lattea (1969) agisce un rabbioso spirito dissacratorio, come sempre, del resto, quando Buñuel è mosso dal risentimento religioso. Il suo ateismo sottintende, in realtà, una aspirazione alla purezza mistica calpestata e delusa dai falsi rituali mondani. Come viene dimostrato da Nazarin (1958), Viridiana (1961), L'angelo sterminatore (1962) e Simon del deserto (1965), la quadrilogia realizzata in Messico, in cui il regista illustra sarcasticamente l'impossibilità di un'esistenza veramente cristiana a contatto con i condizionamenti sociali e le superstizioni correnti.
Un certo gusto del paradosso, conservato fin dai tempi della militanza surrealista a Parigi, è sempre attivo nel cinema bunueliano; ma le sue posizioni negative sono più radicali e rivoluzionarie. Specialmente in quella direzione antiborghese che aveva maturato negli anni Venti, nel milieu surrealista, testimoniata da due film di eccezionale carica eversiva e di esemplare coerenza antirealistica: Un cane andaluso (1928) e L'età d'oro (1930), sceneggiati con Salvador Dalì e apprezzatissimi da Breton, Aragon e compagni. Nel 1932, utilizzando una piccola eredità, Buñuel onora il versante marxista del surrealismo, girando Terra senza pane, impressionante testimonianza della miseria e dell'oppressione di un centro contadino di Spagna. Per una quindicina d'anni, Buñuel abbandona la regia. Soltanto dopo il 1945, il regista torna a dirigere film in Messico, con una serie di titoli importanti: I figli della violenza (1951), Lui (1953), Estasi di un delitto (1955), in cui scandaglia originalmente il mondo sommerso sotto personaggi e comportamenti sociali. Nel 1964, inizia la collaborazione di Buñuel con lo sceneggiatore Jean Claude Carrière in Il diario di una cameriera, dal romanzo di Octave Mirabeau, con cui si apre l'ultima e splendida (vi rientra anche Tristana del 1970) fase della creatività del regista, che frutta un ritratto borghese multiplo e feroce.
Il regista spagnolo Luis Buñuel


I RE DELLA RISATA

Fin dalle origini, con le brevi e rapide storie «delle torte in faccia» di Mack Sennett, le sorti del cinema procedono indissolubilmente legate a quelle del genere comico; ed è da comici come Chaplin e Keaton che la nuova arte riceve il suggello dei risultati eccellenti. Anche fuori dei due medesimi esponenti, il cinema comico è in grado di esibire personalità di rilievo. La dinastia dei cosiddetti «re della risata» è popolosa e multiforme. Da Harry Langdon (1884-1944), che ottenne grande successo nel periodo muto con tre film (La grande sparata, 1926, Di corsa dietro un cuore, 1926, Le sue ultime mutandine, 1927) realizzati con la collaborazione del giovane Frank Capra, a Harold Lloyd (1893-1971), che seppe far valicare al suo personaggio di Luke il solitario, vagamente ispirato all'ingenuo e ottimista vagabondo charlottiano, i confini del sonoro (A rotta di collo, 1928, La frenesia del cinema, 1932, Zampa di gatto, 1934, La via lattea, 1936, Meglio un mercoledì da leone 1946), a Eddie Cantor (1892-1964) che alternava la presenza cinematografica a quella teatrale ed era un poco la sintesi tra Langdon e Lloyd, con in più una notevole capacità canora (Il re dell'Arena, Il museo degli scandali, Coniglio o leone, tra il 1932 e il 1936).
Dopo aver chiuso la carriera in proprio, Harry Langdon fu, con Leo Mc Carey, Charles Rogers, James W. Horne e altri specialisti, tra i collaboratori ai film di Stan Laurel (1890-1965) e Oliver Hardy (1892-1957): la coppia più popolare del cinema comico americano, che in Italia si chiamava Cric e Croc oppure Stanlio e Ollio. Stan Laurel era inglese e aveva sostituito Chaplin nella compagnia di Fred Karno durante una tournée a New York. Anche Oliver Hardy era arrivato allo schermo dal palcoscenico. Ciascuno dei due futuri compari aveva sviluppato una carriera particolare; nel 1917, recitarono occasionalmente insieme nel cortometraggio Lucky Dog; tuttavia la coppia si formò stabilmente nel 1927 con un altro short: Metti i pantaloni a Philip. Girarono insieme 24 lungometraggi sonori, da Muraglie, 1931, a Atollo K, 1951; ma il periodo di maggior successo fu negli anni Trenta fino all'inizio dei Quaranta, con titoli indimenticabili come I due legionari, 1931, Fra Diavolo, 1933, I figli del deserto, 1934, Gli allegri eroi, 1935, Noi siamo zingarelli, 1936, I fanciulli del West, 1937, I diavoli volanti, 1939, Sim Sala Bim, 1942. La comicità di Stanlio e Ollio seguiva schemi precisi: di solito, il «mingherlino» faceva svagatamente precipitare nella catastrofe le compunte iniziative del «ciccione» ma, di tanto in tanto, previa una rapida occhiata di intesa, i due amici procedevano uniti alla meticolosa distruzione di qualcosa, automobile o appartamento che fosse. Dopo la guerra, tramontata la loro stella, Cric e Croc ebbero due mediocri continuatori in Gianni e Pinotto (Bud Abbott e Lou Costello).
La comicità di gruppo ha avuto, tuttavia, l'espressione più alta nei fratelli Marx (Chico, Harpo, Groucho e, talvolta, Zeppo), lunari e imprevedibili frantumatori di ogni possibile realtà americana: da quella quotidianamente materiale all'altra, ideologica, del benessere e del successo. Era Groucho, con i baffoni e il sigaro, a condurre le operazioni, aiutato da Chico che, attraverso l'abbigliamento da immigrato italiano, simboleggiava le minoranze etniche d'oltre oceano. L'intervento decisivo, tuttavia, era sempre di Harpo, muto, con lo sguardo trasognato sotto la parrucca rossa, estemporaneo musicista e folle anarchico del comportamento. Provenienti dal Burlesque, figli d'arte, i Marx hanno dato al cinema quattordici film esilaranti, i cui titoli migliori sono, dopo l'esordio con Le noci di cocco e Animal crackers, tra il 1929 e il 1930, Un imbroglio, 1931, Una notte all'Opera, 1935, Un giorno alle corse, 1937, Duck Soup, 1939, Il bazar delle follie, 1941.
Diversi sono stati i comici statunitensi del dopoguerra: Red Skelton (1913), segnalatosi con Mademoiselle Dubarry nel 1943 e ritiratosi dagli schermi dieci anni dopo; Danny Kaye (1913) fantasioso e trasognato interprete di Sogni proibiti, 1947, e Il favoloso Andersen, 1952; Jerry Lewis (1926) dapprima in coppia con Dean Martin, poi protagonista «picchiatello» di avventure sfortunate affrontate con un disagio anche fisico al limite della nevrosi (Ragazzo tuttofare, 1960, Le folli notti del dottor Jerryl, 1963, Re per una notte, 1983, dopo un silenzio di molti anni).
Il cinema europeo è assai meno prolifico. Meritano un ricordo, in Francia, il marsigliese Fernandel e Jacques Tati, clown delle poetiche divagazioni; in Italia, Totò (Antonio de Curtis, 1898-1967): geniale sintesi tra la maschera di tradizione partenopea e la supermarionetta meccanica futurista.
Stan Laurel e Oliver Hardy


WALT DISNEY E IL CINEMA D'ANIMAZIONE

è stato chiamato l'Esopo moderno e il papà del cinema d'animazione. In realtà, il principale merito di Walt Disney (1901-1966) è quello di aver saputo trovare la formula che, conciliando ragioni artistiche e ragioni commerciali, ha imposto il «cartone animato» come uno dei fenomeni più popolari del mercato cinematografico mondiale. Prima di Disney, la pratica dell'animazione avveniva in un ambito assai più limitato, spesso mossa dal desiderio di sperimentazioni tecniche in un genere che realizzava il movimento delle figure disegnate mediante la ripresa di una successione delle singole immagini, ciascuna contenente l'esatta riproduzione delle posizioni intermedie. «Animazione» vuol dire questo: ottenere con una sintesi visiva l'impressione del moto di disegni statici. C'erano state, intorno agli anni Venti, iniziative di una produzione più o meno industriale di disegni animati, come lo studio del magnate William Randolph Hearst, cui sovrintese per qualche tempo il futuro regista Gregory La Cava; ma la scala di produzione era limitata e gli eroi di carta venivano per lo più presi dalle strisce dei fumetti pubblicati sui giornali (lo stesso nome, «cartoni animati», è una traduzione vocale del termine cartoon, fumetti). è il caso di Krazy Cat, popolarissimo personaggio delle strisce domenicali di George Harriman.
In genere, fu il sonoro ad offrire un formidabile trampolino di lancio per i cartoni animati e Disney seppe coglierlo tempestivamente. Il cinema sonoro decretò il tramonto di personaggi di successo, come l'altro gatto, Felix the Cat, creato da Pat Sullivan e Otto Mesmer, noto in Italia come Mio Mao (lo stesso Disney fallì il colpo con Oswald the Lucky Rabbit, un animaletto strano a mezzo tra Mio Mao e Topolino, nel 1927, mentre i suoi collaboratori che lo avevano ereditato gli assicurarono almeno dieci anni di successi sonori), ma favorì l'esplosione di nuovi divi: la cagnetta sexy Betty Boop, il forzuto marinaio Braccio di ferro, tolto da una strip di Elsie C. Segar, il clown Koo e il cane Bimbo, animati dai fratelli Fleischer.
Il cartone animato era uno short di 5-8 minuti che veniva proiettato insieme ai film di lungometraggio, incontrando l'approvazione anche del pubblico adulto. Quasi tutte le Majors hollywoodiane lanciarono le loro serie e i loro eroi. Braccio di ferro era della Paramount, la Metro aveva Bosko, linguacciuto protagonista della serie Happy Harmonies («Armonie felici»), la Warner Bross puntava su Porky Pig, un porcellino un po' balbuziente, Daffy Duck, un'anatra surreale, e il suo antagonista Taddeo, Bugs Bunny, coniglietto pettegolo e la serie delle Merrie Melodies («Melodie allegre»). Tutte, comunque, si muovevano nel solco aperto da Disney.
Grafico pubblicitario a Kansas City insieme a Ub Iwerks, che sarà il suo animatore più geniale, Disney è a Hollywood nel 1923 impegnato nella serie Alice in Cartoonland, in cui attori in carne ed ossa compaiono accanto ai disegni animati. Nel 1927, con Iwerks tenta la carta di Lucky Rabbit. Ma l'anno seguente lo abbandonò e, fondata la Walt Disney Productions, abbracciò la causa del cinema sonoro. Sempre con Iwerks, aveva creato un nuovo personaggio che godrà di un immediato successo mondiale: Mickey Mouse, Topolino. Ne farà il protagonista del primo cortometraggio sonoro, Steamboat Willie. Nel 1929, Disney inaugura, con Skeleton Dance, la serie delle Silly Simphonies che lo consacrò come indiscusso mago del genere. Durante tutti gli anni Trenta, lo studio Disney realizzò una media di diciotto cortometraggi d'animazione l'anno, apportandovi continue innovazioni, come l'impiego del colore, in Fiori e alberi del 1932, e l'effetto tridimensionale in Il vecchio mulino del 1937. Analogamente, Disney arricchì costantemente la sua galleria di personaggi di successo: con Minnie, la fidanzata di Topolino, il cane Pluto, lo stizzoso anatroccolo Donald Duck (Paperino) che, dal 1937, divenne protagonista di una serie autonoma, in alternativa a quella di Topolino; altri personaggi di contorno furono Pippo, Orazio e Clarabella. L'invenzione comica di questi eroi animati consisteva nel fornire la loro natura zoomorfa di abitudini, comportamenti e reazioni umane. Lo scambio tra zoomorfo e antropomorfo era radicato nella poetica di Disney e ricorrerà anche nella sua produzione a lungometraggio.
Una componente importante del mondo espressivo disneyano è quella sonoro-musicale. I suoi animaletti arricchiscono la loro originale comicità esibendo qualcosa di simile ad una grottesca e caricaturale voce umana; ma questo effetto viene dilatato nell'accostamento musicale delle Silly Simphonies: come nell'esempio del motivetto dei Tre porcellini, Chi ha paura del lupo cattivo, che diventò proverbiale negli USA e nel mondo (durante la guerra civile, gli spagnoli lo canticchiavano sotto i bombardamenti dell'aviazione franchista). Il compositore disneyano per eccellenza fu Frank Churchill, cui si devono le canzoni di Biancaneve e i sette nani, questa volta anche in funzione romantica. Biancaneve e i sette nani, che Disney realizzò nel 1937, fu il primo lungometraggio animato e un autentico colpo di genio del suo autore i cui effetti si vedono ancora negli incassi per le periodiche sortite del film ad oltre mezzo secolo dalla sua comparsa. Le figure della favola dei fratelli Grimm sono umane, ma l'arguzia disneyana ha modo di manifestarsi nel tratteggio dei nanetti: con la loro rumorosa tipologia i nani funzionano da contraltare alla sottolineatura sentimentale che è nel tratto di Biancaneve e nelle visioni fiabesche degli sfondi naturali, riequilibrando l'eccedenza di languore con cui Disney esprime, talvolta, nel film il suo amore per la natura.
Il progetto più ambizioso della filmografia disneyana dette corpo al secondo lungometraggio animato, Fantasia (1940): serie di episodi dedicati all'interpretazione di brani di autore diverso, da Bach a Ponchielli, da Stravinskij a Schubert, da Beethoven a Cajkovskij, ecc., sotto l'autorevole direzione musicale del maestro Leopold Stokowski. L'idea era viva in Disney fin dalla prima delle Silly Simphonies, Skeleton Dance, che consisteva nell'animazione della Danza macabra di Saint Saëns. All'accostamento di musicisti diversi in Fantasia corrispose una diversità di livello espressivo. La critica censurò, ad esempio, la figurazione della Sinfonia pastorale di Beethoven, preferendogli l'umorismo degli elefantini interpreti allegramente goffi della Danza delle ore di Ponchielli o gli estrosi sconquassi causati da Topolino come Apprendista stregone di Dukas. Anche l'animazione di Pinocchio, nello stesso anno, sollevò diverse perplessità, in quanto Disney sembrò essersi accostato al capolavoro di Collodi con una partecipazione soltanto esteriore. Pienamente onorati dall'idillica e sorridente fantasia disneyana sono, invece, i due successivi lungometraggi, Dumbo e Bambi, tra il 1941 e il 1942, che hanno a protagonisti un elefantino che vola e un rugiadoso cerbiatto. Lontano parente di Paperino potrebbe essere il pappagallo José Carioca, nuova invenzione disneyana per il film Saludos amigos (1942), che con il successivo I tre caballeros si volge all'America Latina per motivi propagandistici legati alla guerra. Quest'ultimo, come I racconti dello zio Tom (1946) e Mary Poppins (1964) unisce figure animate e attori in carne ed ossa.
Dopo alcune incertezze produttive, Disney tornò al grande successo internazionale con Cenerentola (1950): evidente ripresa del clima sentimentale di Biancaneve, con il gatto Lucifero e i topolini Gas e Giac a sostenere le variazioni comiche della storia. I costi sempre più rilevanti del genere d'animazione consigliarono Disney negli anni Cinquanta a diradare la produzione dei lungometraggi e a diversificare l'attività. Tra l'altro, Alice nel paese delle meraviglie e Le avventure di Peter Pan, rispettivamente del 1951 e del 1953, non ebbero esito troppo felice. Molto più fortunato fu Lilli e il vagabondo (1955) in cinemascope, una storia vissuta da cani, con la divertente trovata da far vedere gli uomini dal ginocchio in giù, cioè a dire: secondo lo sguardo soggettivo degli animali. Lo sfondo dell'America dei pionieri si sostituisce qui alla natura, cui Disney riserva una serie di documentari scientifici e didattici. L'ultimo decennio della vita di Walt Disney si svolse all'insegna dell'incertezza e del rischio. Nel 1959, La bella addormentata nel bosco fu un ottimo esempio di ambientazione gotica ma costò oltre sei milioni di dollari. Per contenere i costi Disney adottò alcune semplificazioni nella tecnica dell'animazione e abbandonò il mondo delle fiabe aprendosi alla letteratura avventurosa, con La carica dei 101 (1961) e La spada nella roccia (1963) ma scontando anche le novità. Il successo pieno tornò con Il libro della giungla, uscito pochi mesi dopo la morte dell'autore. Senza Disney, la sua sigla ha fatto segnare qualche punto a favore in Gli aristogatti (1970) e in Le avventure di Bianca e Bernie (1977). Dopo qualche anno di calma, il grande successo arrivò di nuovo in casa Disney con film quali Il re Leone (1994), Pocahontas (1995), Il gobbo di Notre Dame (1996), Tarzan (1999).
Lo stile realistico o, per così dire, naturalistico (anche se poetizzato) dei disegni di Disney e dei suoi collaboratori dettò legge per oltre un quindicennio nel cinema d'animazione hollywoodiano. Proprio dagli Studi Disney, tuttavia, proviene il suo contraltare. In seguito ad uno sciopero del 1941, protrattosi per diversi mesi, tre disegnatori e animatori, Dave Hilberman, Zack Schwartz e Stephen Bosustow, si misero in proprio fondando una nuova casa di produzione, la UPA (United Productions of America). Bosustow, che aveva collaborato con Disney per Topolino, Biancaneve e Bambi, ne fu la mente direttiva. Per oltre un quindicennio la UPA sviluppò una diversa concezione del disegno animato, ideologica e stilistica. Da un lato, il cinema d'animazione era visto come campo di sperimentazione grafica e visiva; dall'altro la UPA condivise il gusto sintetico e filiforme delle immagini ispirandosi ai disegni di Thurber e Steinberg e al tratto delle vignette pubblicate su periodici intellettuali come New Yorker e Mad. Il lavoro della UPA non tanto servì a lanciare nuovi divi (in fondo, l'unico personaggio in grado di emulare la popolarità di quelli disneyani fu Mister Magoo, creato da John Hubley nel 1949) quanto a diffondere un diverso gusto espressivo divenuto attivo in molti disegnatori estranei alla UPA stessa e, perfino, in certe produzioni di Disney.
Il modello naturalistico disneyano rimase ben presente alla fantasia dei nuovi disegnatori come Hanna e Barbera, genitori dell'orsetto Yogi e di Tom e Jerry. Meno presente a quella di Fritz Freleng (il gatto Silvestro, Speedy Gonzales), Chuck Jones (Wilcoyote e il suo eterno rivale, lo struzzo Bip-Bip), Walter Lantz (Picchiarello), ecc.
Il dominio della linea, la geometria delle forme, l'imperativo della sperimentazione visuale si ritrovano alla base delle invenzioni dell' anglo-canadese Norman McLaren (1914) che amplia il procedimento di ricerca dalle immagini alla colonna sonora. Specialmente in Europa, il cinema d'animazione rientra nell'ambito dell'esperimento d'arte ed è ben lungi dal proporsi la conquista di un mercato commerciale, com'è accaduto con Disney oltre Atlantico.
Tra le diverse scuole nazionali, ha notevole risalto quella cecoslovacca, con l'animazione particolare dei pupazzi, ad opera di Jiri Trinka e Karel Zeman. Anche l'Italia offre, negli ultimi decenni, una produzione di cinema d'animazione la cui quantità è sostenuta dalle esigenze della pubblicità televisiva. Dopo una produzione occasionale, che va dai pionieri Giovanni Bottini, Carlo e Vittorio Cosso, Arnaldo Ginna, ai primi autori di lungometraggi come Nino e Toni Pagot (I fratelli Dinamite, 1949), Anton Gino Domeneghini (La rosa di Bagdad, 1949) e Francesco Maurizio Guido, detto Gibba (L'ultimo sciuscià, 1947), ecco, sulla fine dei Cinquanta, la nascita di veri e propri studi di produzione. Intorno al 1960 nasce quello di Bruno Bozzetto, inventore del personaggio del Signor Rossi, con i lungometraggi West and Soda (1965), Vip, mio fratello superuomo (1968), Ego (1969), Allegro ma non troppo (1977) che riprende la formula di Fantasia. Con Bozzetto o con i fratelli Pagot sono cresciuti diversi autori d'animazione come Osvaldo Cavandoli e Guido Manuli. Ma, fuori dal rapporto con la pubblicità televisiva, le cose di più squisita elaborazione cromatica e di più estroso senso figurativo sono dovute al pittore e scenografo Emanuele Luzzati e al direttore della fotografia Giulio Giannini che, insieme, hanno firmato opere celebrate nell'ambito del cinema animato: La gazza ladra, L'italiana in Algeri, Alì Babà, Pulcinella, Il flauto magico. Isolato, anche se di rilievo, il lungometraggio Il cavaliere inesistente in cui Pino Zac anima l'originale letterario di Italo Calvino.
Una simpatica immagine di Topolino


1945: DOPO LA TEMPESTA

Il dato saliente del cinema del dopoguerra è un'inversione di tendenza nel panorama internazionale. Mentre per il passato era stata Hollywood ad imporre al mondo i propri modelli spettacolari e produttivi, a pace ristabilita inizia una fase di arretramento per la cinematografia USA. Ancora per molti lustri questa farà accettare dal mercato le proprie leggi. Ma lo star system e i grandi mezzi sono destinati ad un lento processo di perdita di impatto. Contemporaneamente, cresce l'immagine delle cinematografie europee, asiatiche e latino-americane. E al concetto di prodotto si viene sostituendo quello di autore e di scuola: insomma, si assiste ad un generale recupero di artisticità.
Le Majors sono ora costrette ad allearsi tra loro per conservare il controllo della distribuzione sui mercati mondiali. Dovranno, successivamente, per sopravvivere, sviluppare il settore della produzione di filmati per l'odiato nemico televisivo; e, infine, entrare nel portafoglio di supercolossi finanziari, perdendo buona parte della propria identità. Può sembrare paradossale che ciò avvenga quando l'industria hollywoodiana ha mostrato di cosa sia capace realizzando con Via col vento il prodotto più importante di tutta la storia del cinema; ma si tratta di un inarrestabile processo storico, cui gli stessi uomini di Hollywood contribuiranno quando, sulla fine del decennio, seguiranno il senatore McCarthy in una insensata caccia agli autori e agli attori di sinistra, provocando fughe di cervelli e conformistici appiattimenti delle linee. Restato in Europa per non subire l'inquisizione della commissione McCarthy, Joseph Losey (1909-1985), che era stato il regista dell'edizione americana del Galileo di Brecht, girò in Inghilterra i suoi film più significativi: Il servo (1963), L'incidente (1967), Messaggero d'amore (1971).
Ciononostante, lo slogan di Hollywood è ancora molto ottimista: The Movies are better than ever, «I film sono più belli che mai».
La sospensione bellica, frattanto, fa sì che del fenomeno non si abbiano immediati riscontri. Ci sono sei anni di film americani da conoscere e Hollywood continua a fare bella figura. Soltanto dopo il 1945 arrivano in Europa Il mistero del falco (1941) di John Huston e Casablanca (1942) di Michael Curtiz, con relativa esplosione del mito Bogart. Gli stessi Via col vento (1939), Ninotchka (1940), Per chi suona la campana (1943) da Hemingway, vengono proiettati da noi a guerra finita, analogamente a Quarto potere di Orson Welles, a Furore di Ford, entrambi del 1940, e a Piccole volpi di William Wyler, del 1941. Né i registi USA perdono improvvisamente lo smalto; anzi proprio l'esperienza del conflitto porta nelle loro opere una diversa incisività. Alcuni veterani come Henry Hathaway (Il bacio della morte, Chiamate Nord 0777), Robert Siodmack (La donna fantasma, I gangsters), Raoul Walsh (Una pallottola per Roy, Strada maestra) rinverdiscono il filone gangster con una nuova ambiguità nel segnare il confine tra buoni e cattivi. Ambiguità che diventa il tema portante di Il tesoro della Sierra Madre e Giungla d'asfalto di Huston. Con I forzati della gloria e Bastogne, offre un'immagine smitizzata e antieroica della guerra William Wellman (1896-1975), cui si deve anche un crudo film western, Alba fatale (1943) che racconta il linciaggio di un uomo innocente. Autori nuovi come Jules Dassin (Forza bruta, La città nuda, I corsari della strada, I trafficanti della notte), Edward Dmytryk (L'ombra del passato, Anime ferite, Odio implacabile), Robert Rossen (Anima e corpo, Tutti gli uomini del re), Nicholas Ray (La donna del bandito, I bassifondi di San Francisco), Mark Robson (Il grande campione, Odio) mostrano nei loro thrillers un significativo interesse verso i risvolti sociali, la denuncia della violenza, il malessere interiore dei personaggi.
Escono prepotentemente alla luce le due personalità di maggior spicco del periodo: Elia Kazan e Billy Wilder. Kazan (n. 1909) divide la sua attività tra cinema e teatro. Fondatore dell'Actor's Studio, ha alle spalle la partecipazione al Group Theatre i cui orientamenti di sinistra lo condurranno davanti alla commissione del senatore McCarthy. Si toglierà dai pasticci denunciando qualche collega e girando soggetti meno polemici di quelli antecedenti al 1950 (Barriere invisibili, Pinky, La negra bianca, Bandiera gialla) come Un tram chiamato desiderio, e La valle dell'Eden, o addirittura Fronte del porto fortemente critico nei confronti dei sindacati ma sorretto da un suggestivo linguaggio drammatico che il protagonista, Marlon Brando, sfruttava con non comune aderenza. Wilder (n. 1906) sigla, invece, due film robusti (La fiamma del peccato, 1944 e Giorni perduti, 1946) prima di sviluppare una carriera straordinariamente felice nell'ambito di una commedia priva di innocenza. Da Viale del tramonto (1950) a L'appartamento (1960), da Sabrina (1954) a Irma la dolce (1963), da Quando la moglie è in vacanza (1955) a Fedora (1978), Wilder rappresenta l'ultimo esponente di una scuola viennese che passa attraverso Lubitsch e Stroheim.
In generale, la produzione hollywoodiana denuncia limiti di fantasia e offre poche novità di risalto. Tra queste va notata una netta evoluzione del genere western che accoglie nel suo epos fondamentalmente ingenuo e ottimista alcune intrusioni di problematicità: come il capovolgimento del rapporto razziale in L'amante indiana (1950) di Delmer Davis, l'umana paura dell'uomo della legge in Mezzogiorno di fuoco (1952) di Fred Zinnemann, il neoromanticismo intimista de Il cavaliere della valle solitaria (1953) di George Stevens. A dieci anni dalla fine della guerra, la voce più fresca di Hollywood sarà quella di Paddy Chayefsky (1923-1981) che porta sullo schermo testi precedentemente scritti per la televisione: Marty, Pranzo di nozze, La notte dello scapolo, in cui si avverte la chiara influenza del neorealismo italiano.
Si può dire, del resto, che sia stata l'esperienza del neorealismo a dare impulso alla cinematografia mondiale dopo il 1945. Materialmente, la distruzione dei teatri di posa, la mancanza di capitali, una generazione di interpreti abituati alle manierate produzioni del periodo fascista, indirizzarono i nostri registi migliori a girare dal vero e con attori presi dalla strada vicende ben radicate nella realtà quotidiana. Ma già nel 1943, Ossessione di Luchino Visconti aveva anticipato la novità del neorealismo sia pure adattandola alla personale esperienza di assistente di Renoir sul set di Tony. Il neorealismo fu l'incontro di alcuni maestri dalla personalità assai dissimile ma accomunati dal gusto di curvarsi con la macchina da presa sulla cronaca e la storia italiane di quegli anni: De Sica con la gentilezza poetica dell'aneddoto umano e il dolente sentimento sociale, Rossellini con il nitore conoscitivo del linguaggio filmico, Visconti con la complessità e la ricchezza del narratore per immagini epigono della tradizione culturale borghese di Proust e di Mann. Il primo (1901-1974), da divo popolare del realismo rosa cameriniano, si affermò nella regia con una prudente progressione (Teresa Venerdì, 1940, Un garibaldino al convento, 1942, I bambini ci guardano, 1943, Le porte del cielo, 1944) realizzando tra il 1946 e il 1951, con l'insostituibile collaborazione di Cesare Zavattini soggettista e sceneggiatore, una tetralogia intimamente coerente: Sciuscià, sui ragazzi in balia di se stessi, Ladri di biciclette, sulla giornata di un disoccupato, Miracolo a Milano, favola di barboni in una città alle soglie del rilancio industriale, Umberto D. disadorno e toccante ritratto della vita solitaria di un pensionato, che ha formato il corpus di più limpida commozione poetica del cinema neorealista. Rossellini (1906-1977) è dei tre il cineasta puro, quello che fa un tutto unico con la macchina da presa. Il suo approccio alla realtà è diretto e rivelatore (non per nulla è stato idolatrato dai registi della nouvelle vague). Dopo l'esordio documentaristico (La nave bianca, alla scuola del comandante De Robertis) esplode sulla fine del 1944 con Roma città aperta e, un anno dopo, con Paisà che assorbe e consuma i residui melodrammatici del film precedente in una resa poetica, di essenziale visività, nei sei episodi che raccontano, dalla Sicilia alla Valle Padana, le tappe della campagna italiana degli Alleati. Generosa, instabile, attratta da interessi diversi, l'arte rosselliniana dette frutti diseguali quando la sua natura visiva venne a misurarsi con ritratti psicologici (anche per l'incidenza dei rapporti personali con Anna Magnani e Ingrid Bergman) o diagnosi storiche. Così, Europa 51 è meno persuasivo di Germania anno zero e Stromboli di Francesco giullare di Dio. Ma nel 1954, con Viaggio in Italia, Rossellini filma un'opera in anticipo sul gusto di almeno un decennio. E, nel 1966, convintosi ad occuparsi di filmati didattici per la Tv, il regista dà un altro capolavoro: La presa di potere di Luigi XIV. Infine, Visconti, pagato con La terra trema e Bellissima il debito neorealista, si volge sempre maggiormente ad un mondo di inquiete riflessioni storico-ideologiche e di smagliante sontuosità figurativa.
Accanto ai maestri, altri autori di spicco connotano il neorealismo. Renato Castellani (1913-1986) con Sotto il sole di Roma (1948), è primavera (1949), Due soldi di speranza (1952); Alberto Lattuada (n. 1914) con Il bandito (1946) e Senza pietà (1948); Giuseppe De Santis (1917-1997) con Caccia tragica (1947), Riso amaro (1948), Non c'è pace tra gli ulivi (1950), Roma ore 11 (1952); Eduardo De Filippo (1900-1984) con Napoli milionaria (1950); Pietro Germi (1914-1974) con Gioventù perduta (1948), In nome della legge (1949), Il cammino della speranza (1950); Carlo Lizzani (1922) con Achtung banditi! (1952) e Cronache di poveri amanti (1954). Ma anche autori di cifra essenzialmente diversa, come Michelangelo Antonioni (Cronaca di un amore, 1950) e Federico Fellini (Lo sceicco bianco, 1951, I vitelloni, 1953, e La strada, 1954) hanno qui le loro radici.
La ritrovata libertà e le possibilità derivate da una maggiore circolazione internazionale favorirono la conoscenza di cinematografie poco note, come la messicana (con i film della coppia Emilio Fernandez, regista, e Gabriel Figueroa, direttore della fotografia: Maria Candelaria, 1944, Enamorada, 1946, La perla, 1947) e, specialmente, la giapponese che fu capace di offrire nell'arco di pochi anni, alcuni capolavori: Vita di O Haru, donna galante (1952) e Racconti della luna pallida dopo la pioggia (1953) di Kenij Mizoguchi, I figli di Hiroshima (1952) di Kaneto Shindo, il mistico Arpa birmana (1955) di Kon Ichikawa. Rashomon (1950) è la rivelazione di un grande autore, Akira Kurosawa. Ma, in generale, tutte le cinematografie nazionali si arricchiscono di proposte notevoli. A Parigi, nomi nuovi si affacciano alla ribalta: René Clément, autore di La bataille du rail (1946), forse il più bel film sulla Resistenza, e Giochi proibiti (1952); Jacques Becker, che in Casco d'oro (1951) riprenderà il discorso di un realismo popolare alla Renoir, con due storie vivaci e penetranti: Amore e fortuna (1947) e Le sedicenni (1949). Claude Autant-Lara realizza il classico Diavolo in corpo (1947), dal romanzo di Radiguet, ed Henri Georges Clouzot, che ha già firmato in piena occupazione l'imbarazzante Il corvo (1943), dirige Legittima difesa (1947) e il discusso Manon (1949). Perfino il veterano Jean Cocteau gira i suoi due film più interessanti: La bella e la bestia (1946) e Parenti terribili (1948). E si presenta un esordiente di tutto riguardo, Robert Bresson, con Il diario di un curato di campagna (1951) intessuto di tempi meditativi e di disadorna commozione.
Anche in Inghilterra si respira aria nuova. Qui, il vecchio sogno di sir Alexander Korda di contendere ad Hollywood la supremazia sui mercati di lingua inglese è raccolto da Arthur Rank che concentra nelle proprie mani un articolato sistema produttivo costruendo nuovi Studi a Pinewood. Le cose migliori vengono da David Lean (1908-1991) con Breve incontro (1946) e due adattamenti da Dickens, Grandi speranze (1946) e Oliver Twist (1948); da Carol Reed (1906-1976) con Il fuggiasco (1946), Idolo infranto (1947), Il terzo uomo (1948); e specialmente dalla coppia Michael Powell-Emeric Pressburger, campioni del racconto fantastico in un prezioso technicolor: Scala al paradiso, Narciso nero, Scarpette rosse, tra il 1946 e il 1948. E Laurence Olivier, che nel 1945 aveva diretto uno squillante Enrico V, completa la trilogia shakespeariana con il severo bianco e nero di un Amleto psicanalitico (1948) e con il ritorno al colore in Riccardo III, la cui lavorazione si protrae fino al 1954. Tuttavia, Rank esce sconfitto dalla guerra dei produttori e deve ridimensionare l'attività. La cinematografia inglese, conservando pur sempre un estremo decoro professionale, è costretta ad attendere la rivoluzione del free cinema per rivendicare un'originale personalità.
Come movimento, il free cinema si impose dopo la metà degli anni Cinquanta, in stretta connessione con il teatro «arrabbiato» di John Osborne e compagni. Interpreti della delusione seguita alla crisi di Suez e al fallimento della politica del premier Eden, sia l'uno che l'altro alimentano una violenta requisitoria contro l'establishment della società britannica, le sue plumbee tradizioni e i suoi orgogliosi ricordi imperiali. Senza qualificare la propria rivolta di un preciso orientamento ideologico, le opere dei registi free esprimono un'appassionata contestazione al costume e un'attenzione al mondo popolare e del lavoro sia a Londra che nei centri industriali della provincia. Curiosamente, quando i film a soggetto dei registi free cominciarono a circolare, il movimento aveva già esaurito parte della carica protestataria poiché aveva vissuto una prima fase di corto e mediometraggi rigorosamente documentari che aveva impegnato specialmente Lindsay Anderson, Karel Reisz, Tony Richardson e Lorenza Mazzetti. Il primo lungometraggio free è I giovani arrabbiati (o Ricorda con rabbia, 1959) di Tony Richardson (1928-1991) dalla commedia di Osborne, cui seguirono, l'anno dopo, Gli sfasati, ancora da Osborne, e Sapore di miele, e, nel 1962, Gioventù amore e rabbia. In seguito, fuori del free, Richardson dirigerà il pregevole Tom Jones (1963) e, in USA, Il caro estinto (1965) da un romanzo satirico di Evelyn Waugh. Karel Reisz (1926) è forse il regista più caratteristico del movimento: dal documentario del 1959 Noi siamo i ragazzi di Lambeth a Sabato sera, domenica mattina (1960), La doppia vita di Don Craig (1964), Morgan matto da legare (1966). Molto più tardi, trasferitosi a Hollywood, ha girato un film di successo, La donna del tenente francese (1981), in cui è avvertibile la mano dello sceneggiatore e commediografo Harold Pinter. Per parte sua, John Schlesinger (1926) ha mescolato una certa adesione iniziale al free (Una maniera d'amare, 1962, Billy il bugiardo, 1963, Darling, 1965, Domenica, maledetta domenica, 1971) con le prove robuste ma integrate nei parametri produttivi USA di Un uomo da marciapiede (1969), Il giorno della locusta (1975), Il maratoneta (1976). Critico e saggista, infine, Lindsay Anderson (1923) ha rappresentato la coscienza teorica del movimento ed è stato autore di due tra i suoi film più significativi: Io sono un campione (1963) e Se... (1968).
La stessa volontà dei colleghi inglesi di opporsi all'uso convenzionale e commerciale del cinema muove i giovani autori della nouvelle vague, con un più accentuato interesse per i problemi espressivi del film e le specificità del suo linguaggio. Il retroterra della nouvelle vague è intellettuale, fiorito intorno alla rivista parigina Les cahiers du cinema, negli anni Cinquanta, e all'insegnamento del comune maestro André Bazin. Godard, Truffaut, Rohmer, Rivette, Chabrol, ecc., prima che registi, furono critici e saggisti: ammiratori di alcune figure di spicco (Renoir, Hitchcock, Rossellini), ma anche valorizzatori di robusti artigiani capaci di fare film vitali fuori dagli schemi della grande produzione. Il loro impegno ha dotato il cinema di una sensibile dimensione critica e sviluppato l'intento di arricchire la direzione di un film con la contemporanea riflessione sui suoi significati. Il cinema dopo la vague ha moltiplicato la sua gamma espressiva. Il più famoso dei nuovi cineasti, Jean Luc Godard (1930), nonostante sia caduto gradatamente vittima di un processo involutivo e abbia sottomesso talvolta il linguaggio alla pura e semplice enunciazione politica, è riuscito nelle sue opere degli anni Sessanta (Fino all'ultimo respiro, 1960, La donna è donna, 1961, Questa è la mia vita, 1962, Una donna sposata, 1964, Il bandito delle 11, 1965, Il maschio e la femmina, 1966, Due o tre cose che so di lei, 1967) ad istituire una sorta di gnoseologia del cinema per cui la macchina da presa non filma la realtà ma «scopre» una sua propria categoria di essa. Il versante estremo della poetica godardiana è occupato da Jacques Rivette (1928) che in L'amour fou (1968) e Celine et Julie vont en bateau (1974) è arrivato a non raccontare alcuna storia affidando alle inquadrature soltanto delle cangianti e vitali testimonianze di linguaggio. Più sensibile alle ragioni, anche fantastiche, del racconto cinematografico, François Truffaut (1932-1985) ha tuttavia mostrato, nei titoli della serie di Antoine Doinel, personale creazione di Jean Pierre Léraud, le singolari possibilità del film diaristico, con il protagonista che narra di se stesso ma non nei tempi autobiografici della memoria. Rivelatosi con alcuni film di sorprendente originalità e di generosa anarchia (I quattrocento colpi, 1959, Julies et Jim, 1962) Truffaut è poi venuto maturando uno stile capace di profonde vibrazioni ma sempre affidato ad un'insolita levità di toni, tanto nelle opere di più insistito spessore drammatico e letterario (Le due inglesi e il continente, 1971, Adele H, 1975, La camera verde, 1978, La signora della porta accanto, 1982) quando nel racconto direttamente germinato dalla propria esperienza vitale (Effetto notte, 1973, L'ultimo metro, 1980). Il sottile, risentitissimo segno di Eric Rohmer (1920) si materializza sullo schermo in un elegante disegno psicologico, spesso graffiato dal sentimento della solitudine e da una certa malinconia dell'erotismo nelle due serie dei Racconti morali e dei Proverbi, in cui emergono La mia notte con Maud (1969), La moglie dell'aviatore e Il bel matrimonio (1981), Notti di luna piena (1985). Una squisita misura letteraria contrassegna La marchesa von... (1976) dal racconto di Kleist. Con Le beau Serge (1958) e I cugini (1959) Claude Chabrol (1930) ha aperto la strada ai suoi colleghi delle vague e portato in dote al movimento le prime segnalazioni internazionali, optando in seguito per un cinema più eclettico che non esclude il racconto poliziesco ma anche la ricostruzione di episodi drammatici e ambigui della storia francese del Novecento, come Violette Nozière (1978) e Un affare di donne (1988). Un poco più appartati rispetto agli altri sono Louis Malle e Alain Resnais. Il primo (1932-1995) autore di opere polemiche (Les amantes, 1958, Fuoco fatuo, 1963, Cognome e nome: Lacombe Lucien, 1974, Arrivederci ragazzi, 1987, e, in USA, Pretty Baby, 1980, Atlantic City, 1981); il secondo (1922) lucido indagatore dei sottili rapporti della memoria con il tempo in film come Hiroshima mon amour (1959), L'anno scorso a Marienbad (1961), Muriel, il tempo di un ritorno (1963), Providence (1977), Mon oncle d'Amerique (1980), in cui un prezioso contrappunto visivo-sonoro si snoda con sinuosa, ritmica eleganza.

VISCONTI

Pur avendo anticipato il neorealismo con Ossessione (1943) e offerto, in quest'ambito, la prova straordinaria di La terra trema (1948), da I malavoglia di Verga, e di Bellissima (1952), la poetica di Luchino Visconti (1906-1976) allinea accanto all'attenzione per la storia italiana (Senso, 1954, Il gattopardo, 1963) altri interessi. Per le vicende nazionali d'oggi, ad esempio (Rocco e i suoi fratelli, 1960, Vaghe stelle dell'orsa, 1965) ma elaborate alla luce di motivi antropologici, freudiani e primitivi, nell'ambito familiare. Specialmente, lo ha intrigato la riflessione sulla crisi e la decadenza della civiltà borghese, colta nell'accostamento con le opere di importanti scrittori del Novecento: da Proust (con un progetto irrealizzato su La recherche) a Thomas Mann (Morte a Venezia, 1971) a Camus (Lo straniero, 1967). In La caduta degli dei (1968) e nel monumentale Ludwig (1973) il regista porta avanti una lettura ambigua e mortuaria dei destini della Germania. In Gruppo di famiglia in un interno (1974) si sforza di comprendere le posizioni giovanili post sessantottesche. L'ultimo film, il dannunziano L'innocente (1976), è stato girato quando Visconti era già stato colpito nel fisico e non comporta elementi di rilievo.

BERGMAN

Ingmar Bergman (1918) è l'autore che raccogliendo l'eredità dei maestri svedesi (da Sjöström a Stiller, da Sjöberg a Molander) è giunto ad uno dei potenziali espressivi più ricchi della storia del cinema. Oltre che l'humus delle saghe nordiche, il mondo poetico bergmaniano accoglie ed elabora alcuni temi fondamentali della riflessione novecentesca, dall'esistenzialismo al freudismo, coniugandoli con la tensione religiosa da un lato, e il gusto di rappresentare concretamente la vita dall'altro. Smagliante uomo di teatro, ha trovato in Strindberg la guida per esprimere il senso inquieto, interrogativo e turbato dell'individuo di fronte all'esistenza e alle crisi della propria coscienza. Direttore del Reale teatro di Stoccolma, ha abbandonato il cinema verso la metà degli anni Ottanta, conscio probabilmente di non poter esprimersi meglio di quanto già aveva fatto in una filmografia straordinariamente numerosa e profonda.
Dapprima sceneggiatore, poi regista di opere realistiche dalla fine della guerra, intorno agli anni Cinquanta Bergman dirige un gruppo di film che hanno la passione a motivo centrale: Estate d'amore (1954), Monika e il desiderio (1952), Una vampata d'amore (1953), Una lezione d'amore (1954), Sogni di donna (1955). In essi l'intonazione è naturalistico-psicologica e il tema pare esaurirsi, nella sensibilità del regista, con la levità ironica di Sorrisi di una notte d'estate che nel 1955 dà a Bergman fama internazionale. Con Il settimo sigillo e La fontana della vergine, rispettivamente del 1956 e 1959, l'antica favolistica del Nord offre la materia per due riflessioni sulla morte e sulla vita, mentre Il posto delle fragole (1957) costituisce un inaspettato capitolo sulla capacità bergmaniana di assorbire le inquietudini e il pessimismo esistenziali in un ritratto, malinconico ma affettuoso, di un medico che ripercorre la propria esistenza con gli occhi smagati della vecchiaia. Comincia adesso la fase più inquietante ed enigmatica dell'opera bergmaniana, lungo la doppia interrogazione dell'uomo verso la propria coscienza e verso il silenzio di Dio: L'occhio del diavolo (1960), Come in uno specchio (1961), Luci d'inverno (1962), Il silenzio (1963) e i film sul mascheramento del teatro: Il volto (1958), Persona (1965), Il rito (1969). L'isola di Farö, abituale e romito rifugio del regista, entra a far parte della topografia ideale bergmaniana, con un sensibile apporto espressivo. Bergman pare interessato ad una cinematografia che riesca a concretizzare la vita interiore dell'individuo, a materializzare l'inespresso. è il caso di L'ora del lupo (1967) e Passione (1970) con le più esplicite (e meno riuscite) incursioni nel collettivo di La vergogna (1968).
Gli anni Settanta presentano un nuovo Bergman: due fallimenti hollywoodiani con L'adultera (1971) e L'uovo di serpente (1977); un quasi perfetto Sussurri e grida (1972) nell'ambito della narrativa interiore; infine la scoperta del mezzo televisivo con la penetrante analisi della coppia di Scene da un matrimonio (1973) e il ritratto dell'inconscio femminile di Immagine allo specchio (1975).
Gli anni Ottanta infine segnano l'acme di questo cinema (cui ha fornito un contributo incalcolabile il direttore della fotografia Sven Nyqust e che non sarebbe pensabile senza la presenza dei grandi interpreti bergmaniani, da Ingrid Thulin a Max von Sydow da Gunnar Björnstrand a Liv Ulmann, da Harriet Andersson a Erland Josephson, da Bibi Andersson a Karl Jalle), sul piano del grandioso affresco narrativo (Fanny e Alexander) e sul piano della testimonianza pacificata di Bergman con i propri fantasmi (Dopo la prova).

KUROSAWA

Come il suo più giovane collega e compatriota, Nagisa Oshima (1932), autore de La cerimonia (1970) e L'impero dei sensi (1976), Akira Kurosawa (1910-1998) tratta spesso un cinema giapponese tradizionale alla luce di visioni occidentali. Cioè significa che anche le sue storie di samurai più classiche, come I sette samurai (1954), rivelano un'intenzione critica e una conoscenza delle strutture filmiche statunitensi. Kurosawa (1910) cominciò a lavorare come regista negli anni della guerra, ispirandosi con crudo realismo alla vita dei quartieri popolari di Tokyo. è lo stesso sfondo sociale di Yoidore Tenshi (1948), storia di un gangster tubercolotico, in cui compaiono due interpreti prediletti dal regista: Takashi Shimura e Toshiro Mifune. Nel 1950, arriva il successo internazionale di Rashomon, ma la demitizzazione della retorica samurai era stata aperta, cinque anni avanti, dalla satira di Tora no O.
Ikiru (1952), che racconta di come un impiegato statale ammalato di cancro dedichi i suoi ultimi mesi di vita alla realizzazione di un parco giochi per i bambini in un quartiere popolare, apre il filone intimista di Kurosawa, che continuerà in I sette samurai, con il suo messaggio sull'inutilità del combattimento e la supremazia dell'esistenza contadina su quella guerriera, Donzoko (1957), La sfida del samurai e Sanjuro (1961), per concludersi con le amare e generose esortazioni di un vecchio medico al suo allievo in Barbarossa (1965).
Di cultura aperta all'Occidente (Shakespeare, Dostoevskij) e di ideologia marxista, Kurosawa sembra oscillare dai temi della denuncia sociale e della solidarietà umana al nichilismo amaro che gli proviene dalla tradizione spirituale orientale. Anche le opere del suo ultimo periodo di attività rientrano in un siffatto quadro.
Do-des-ka-den (1970) è un film di bassifondi e di bambini; Dersu Uzala (1975), realizzato in URSS, esalta il valore positivo dell'amicizia tra un esploratore e un cacciatore siberiano; Kagemushha (1980) è un maestoso e policromo affresco sulla vita nipponica medievale, animato da scene indimenticabili di battaglie e siglato dalla rappresentazione finale dell'inutilità del potere.
Infine, Ran (1985), lontanamente riferito a Re Lear (così come Il trono di sangue, 1957, era la versione di Macbeth), è una disperata riflessione sul dolore, sul destino, e sulla morte.

LE DIVINE

Nessun altro fenomeno di creazione fantastica o di esercitazione ludica ha mostrato le proiezioni mitologiche del cinema. è il cinema che, nella società moderna, ripropone un sistema magico da sempre esistente nell'immaginario umano: quello delle creature irreali che concretizzano una loro vita nella realtà degli spettatori. Ombre o sogni di micidiale esemplarità collettiva, dei e semidei in cui si incarna la mitologia dei nostri giorni: i divi. Materialmente, si tratta di un effetto direttamente generato dalle strategie del consenso che il film implica, come ogni prodotto di massa. Queste strategie furono portate al loro massimo livello di sofisticazione e di efficacia dallo star system di Hollywood. Ma psicologi, sociologi e storici del costume hanno cercato alle radici del divismo motivi più sottili. Ponendo in luce come la spinta fondamentale sia quella del processo psicoaffettivo tra spettatore e film: cioè quell'istinto di proiezione-identificazione che si sviluppa nello spettatore verso le vicende dello schermo e i loro interpreti-personaggi. Istinto particolarmente stimolato dalle condizioni della sala cinematografica, con lo spettatore al buio come durante il sonno e lo schermo fortemente illuminato come i sogni che facciamo dormendo.
Sia come sia, il fenomeno è generale. Lo spettatore medio, di solito, ricorda di un film l'interprete principale, l'eroe, più che il regista che ne è l'autore. E, all'opposto, molti film sono pensati non per raccontare una storia autosufficiente, ma per consentire al divo di aggiungere un capitolo alla propria storia personale. Quando, nel 1930, la Metro decise che anche Greta Garbo doveva convertirsi al sonoro, il suo Anna Christie fu presentato con uno slogan che alludeva alla diva e non al film o alla novità della tecnica cinematografica: - La Garbo parla! - E, quasi dieci anni dopo Ninotchka che segnava una svolta comica nella recitazione della diva fu del pari propagandato con lo slogan: - La Garbo ride! -. Il mescolamento dei ruoli è sintomatico. Le star scendono nel mondo dei comuni spettatori, ma restano star così come gli dei scendevano talvolta dall'Olimpo, mascherandosi da mortali ma restando dei. Le ragioni dell'imporsi di queste divinità moderne paiono alquanto misteriose. La bravura non rientra sempre fra di esse. Assai più importanti sono il fascino personale, il carismatico magnetismo amoroso, la fotogenia. I massimi livelli divistici, solitamente, sono quelli passionali: oggetti del desiderio maschile e dell'autoidentificazione femminile. O viceversa. Ma la storia del cinema insegna che l'Olimpo hollywoodiano è più popolato di Divine che di Divini.
Soltanto James Dean è diventato un simbolo e un mito a prezzo di un destino di autodistruzione. Nessun altro attore ha raggiunto livelli di culto paragonabili a quelli di una Garbo o di una Marlene Dietrich. Greta Garbo (Greta Lovisa Gustafsson, 1905) è giunta ad integrare il proprio mito con quello stesso del cinema. Sacerdotessa dell'amore e della passione, ma, forse, ancor più sacerdotessa della sofferenza dell'amore, Greta ha celebrato il proprio rito, nei quindici anni del lavoro hollywoodiano, in 22 film (gli ultimi due, Ninotchka e Non tradirmi con me, del 1939 e 1941 rispettivamente, costituiscono soltanto due anticipazioni del ritiro) che sono altrettante occasioni di drammi dolenti e appassionati: privati, storici, letterari, aristocratici borghesi, popolari, non importa. Da La carne e il diavolo (1927) a Il bacio (1929) a La cortigiana (1931), da Regina Cristina (1933) a Maria Walenska (1937), da Mata Hari (1932) a Anna Karenina (1935) a Margherita Gauthier (1936), ecc., è sempre l'identico volto assorto e remoto, con un'ombra di dolente mestizia nello sguardo e in tutta la persona il vibrare di una qualità d'amore altero e, per così dire, appassionatamente spirituale, a rinnovare un personalissimo phatos per le platee di tutto il mondo: gli occhi sempre puntati, al di la dell'uomo amato, verso un punto d'infinito, quasi per la memoria dei ghiacciati crepuscoli svedesi, della Stoccolma dove Greta era nata e Max Stiller l'aveva creata attrice nel 1924, in La leggenda di Costa Berling, e Pabst ne aveva intuito la natura dirigendola, l'anno dopo, in L'ammaliatrice.
Anche Marlene Dietrich (Maria Maddalene Dietrich, 1901) ebbe un Pigmalione nel regista Joseph von Sternberg, che, dopo averla vista a Berlino nella commedia musicale Zwei Kravatten di Georg Kaiser, ne fece la dea del desiderio.
Prima, insolente e carnale, innocente come un accadimento della natura e, insieme, grevemente maliziosa, con le calze nere e le cosce bianche, mentre canta con la voce roca stando a cavalcioni di una sedia, regina di un cabaret in cui si indovinano, tra le volute di fumo, gli odori della birra e del sudore, indimenticabile Lola-Lola in Angelo Azzurro (1930).
Poi, dopo la chiamata ad Hollywood e ricordandosi della sua cultura di ebreo viennese, assottigliandole il volto nella promessa di peccato degli zigomi marcati e della bocca sensuale che la luce beffarda dello sguardo rendeva irrealizzabile. E furono i sei film che, dal 1930 al 1935, resero Marlene il simbolo erotico dell'inconscio, del desiderio sublimato nel sommerso delle platee, inconfessabile e irraggiungibile, incastonato in contesti stilistici di un barocco acceso e sfrenato, di una figuratività delirante e vagamente mortuaria: da Marocco a Disonorata, da Shanghai Express a Venere bionda, da L'imperatrice Caterina a Capriccio spagnolo.
Certo, ogni Divina ha il suo tempo, incarna le pulsioni segrete della sua età. Così, l'erotismo rappresentato da Marilyn Monroe (Norma Jean Baker, 1926-1962) è infinitamente più libero e quotidiano, solare e disinibito.
La sua carica erotica era talmente autentica da rivelarsi anche nei goffi abbigliamenti, volgarmente colorati, di Niagara (1953). Marylin è stata un sex symbol esplosivo, ma anche tenero, ingenuo, sinceramente vitale.
Ha rappresentato il sex appeal della ragazza della porta accanto in Quando la moglie è in vacanza (1955) e quello della ragazza di palcoscenico in A qualcuno piace caldo (1959) e in Facciamo l'amore (1960); il sex appeal della ragazza decisa di La magnifica preda (1954) e quello della ragazza confusa in Fermata d'autobus (1956) il sex appeal candido de Il principe e la ballerina (1957) e quello vissuto de Gli spostati (1961). Il tempo di Marilyn era così diverso da infrangere la regola aurea del divismo sull'inconciliabilità della vita privata con l'adorazione pubblica.
Greta Garbo ha sempre difeso ferocemente la propria privacy, anche dopo il ritiro che fece epoca, nascondendo addirittura il volto dietro grossi occhiali scuri. Quasi nessuno sapeva che Marlene andò ad Hollywood con un marito, cineasta anche lui, ed una figlia. Le vicissitudini private guastarono la carriera divistica di attrici molto bene avviate come Ingrid Bergmann e, specialmente, Rita Hayworth, l'atomica del sesso, che aveva avuto il (discutibile) privilegio di dare il nome del personaggio di un proprio film (Gilda, 1945) alla bomba atomica. Le burrascose e infelici vicende sentimentali, invece, non furono mai d'ostacolo alla divinizzazione di Marilyn: pareva naturale che avesse guai, tutti vi sublimavamo i propri.
Ma come ha un tempo preciso, il divismo per durare oltre di quello deve saper rinunciare tempestivamente a se stesso. Confinandosi nel passato, riesce a continuare a vivere nella memoria del futuro. Marlene per ribadire l'eternità del suo mito, scelse la strada dell'ironia.
Fu Ernst Lubitsch a riciclarla nella commedia sofisticata (con Desiderio e Angelo, tra il 1936 e il 1937), genere in cui dette altre divertenti prove di autoparodia: L'ammaliatrice e Partita d'azzardo, 1940, Scandalo internazionale 1948; quindi, tornata soltanto attrice, è comparsa sullo schermo fino a Gigolò, 1979, alternandosi nei recital di canzoni in teatro. Con Ninotchka a Lubitsch non riuscì di duplicare l'operazione nei confronti della Garbo e Greta scelse il ritiro definitivo. A Marilyn, la clausola finale è stata imposta dal destino avverso. Un poco come era capitato nel 1937 a Jean Harlow: che non è sicuro fosse una autentica Divina. Probabilmente era soltanto una ragazza d'aspetto sensuale, con i capelli platinati, che non si curava - anzi - di nascondere le pregevoli forme e di temperare il modo di esprimersi. Ma morì a 26 anni, mentre girava Saratoga. Fu sostituita nelle ultime inquadrature da una giovanissima Lana Turner, ripresa di spalle e in campo lungo. Ed entrò nell'Olimpo delle Stelle.
Marlene Dietrich


LA DENUNCIA E LA PROTESTA

La lontana impronta del neorealismo e il suo uso del film come strumento di discussione civile e sociale sono calcolabili nelle matrici dell'orientamento di denuncia e di protesta che, dalla fine dei Cinquanta in avanti, si ritrovano in molta parte della cinematografia mondiale. Il fenomeno ha maggior continuità nel cinema italiano dove il referente realistico è presente anche in quella che può considerarsi la conseguenza minimale e più spettacolarizzata del neorealismo: la cosiddetta «commedia all'italiana», in cui la rappresentazione critica della vita nazionale è svolta in termini di comicità e di satira, con il caratterizzante apporto interpretativo di alcuni attori di spicco: Alberto Sordi (regista egli stesso), Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi. Del resto, gli autori più significativi della commedia all'italiana nascono tutti in pieno clima neorealista. Da Luigi Comencini (n. 1916), esordiente nel 1946 con il documentario Bambini in città, che anticipò il nuovo filone con Pane, amore e fantasia (1953) contribuendovi quindi con Tutti a casa (1960) e L'ingorgo (1978) a Dino Risi (n. 1916), anch'egli autore di documentari neorealisti (Barboni, 1946, Cortili, 1948), maestro del genere con Una vita difficile, I mostri, Il sorpasso, tra il 1961 e il 1963; da Luigi Zampa (1905-1991) rievocatore in toni satirico-grotteschi del fascismo in Anni difficili (1948), Anni facili (1953), L'arte di arrangiarsi (1955), Anni ruggenti (1962), oltre che derisore di certe malformazioni del costume (n vigile, 1960, Il medico della mutua, 1968) a Mario Monicelli (1915) con I soliti ignoti (1958) e Guardia e ladri (1951); da Pietro Germi (1914-1974) con Divorzio all'italiana (1961), Sedotta e abbandonata (1964), Signore e signori (1965), Alfredo, Alfredo (1972), a Ettore Scola (n. 1931): Se permette parliamo di donne (1964), La congiuntura (1965), C'eravamo tanto amati (1974), Brutti, sporchi e cattivi (1976). Tutti (o quasi) questi autori hanno contemporaneamente all'attivo opere di chiara impronta realistica: Zampa (Processo alla città), Germi (Il ferroviere e L'uomo di paglia), Comencini (La ragazza di Bube, Voltati Eugenio), Monicelli (I compagni, La grande guerra, Romanzo popolare, Un borghese piccolo piccolo, Speriamo che sia femmina), Risi (Profumo di donna, Anima persa), Scola (Il commissario Pepe, Una giornata particolare, La famiglia, Concorrenza sleale).
Un filo diretto tra film di denuncia e neorealismo si coglie pienamente nella filmografia di Francesco Rosi (n. 1922), già assistente di Visconti per La terra trema e Bellissima e titolare in proprio di un impegno radicato nei problemi, generali e particolari, della vita italiana. Impegno presente fin dal film d'esordio, La sfida (1958), che affrontava una vicenda di camorra con il risalto drammatico del cinema USA. Rosi continuò il discorso con I magliari (1959) e attinse il massimo risultato nel civile risentimento di Salvatore Giuliano (1961) e Le mani sulla città (1963): coraggiosa testimonianza sulle collusioni nella speculazione edilizia a Napoli. Ancora forti accenti di polemica pacifista in Uomini contro (1970); quindi una sorta di inchiesta dai risvolti inquietanti sulla fine misteriosa del fondatore dell'Eni: Il caso Mattei (1972). Infine, la trasposizione in immagini di tre romanzi dai contenuti imbarazzanti, accomunati da un forte spirito meridionalista: Cadaveri eccellenti (1976) da Il contesto di Sciascia, Cristo si è fermato a Eboli (1979) dall'opera omonima di Carlo Levi, Tre fratelli (1981) da un testo di Platonov adattato alla situazione italiana degli anni di piombo. Autore aggressivo e provocatorio, Elio Petri (1929-1981) ha mirato nei suoi film a fare esplodere le situazioni contraddittorie di anni incerti della vita italiana. Particolarmente, Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) denunciava le deviazioni di un commissario di polizia ai tempi della strage milanese di piazza Fontana e del caso Calabresi; La classe operaia va in paradiso (1971) offriva il ritratto di un metallurgico dimentico dei problemi della fabbrica e conquistato dall'integrazione consumistica; La proprietà non è più un furto (1973) prendeva a bersaglio l'incertezza ideologica della sinistra. Infine Todo modo (1976), nell'agghiacciante apologo di una strage di uomini politici, acquistava un sapore profetico nei confronti dell'assassinio dell'onorevole Aldo Moro. Denuncia civile anche nei film di Damiano Damiani (1922): Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica (1971), L'istruttoria è chiusa: dimentichi! (1975), Perché si uccide un magistrato (1976). E denuncia politico-militare in La battaglia di Algeri, di Gillo Pontecorvo (n. 1919), sulla repressione francese in Algeria.
Particolarmente intrisi di violenza i film-denuncia di Marco Bellocchio (n. 1939), Nel nome del padre (1971), e Sbatti il mostro in prima pagina (1976), rispettivamente sulla rigida educazione religiosa e il malinteso scandalismo giornalistico. Ma il nome di Bellocchio è legato specialmente a I pugni in tasca (1965): capostipite di tutte le opere sulla rivolta giovanile cui dette una appassionata testimonianza anche l'Antonioni di Zabriskie Point (1970). Apocalittica e irrimediabile, anche se spesso espressa in termini clamorosi di grottesco, è l'angosciata visione di Marco Ferreri (1928-1997) il cui cinema dilata il sarcastico quadro sociale di partenza e le sue stravolte e irridenti metafore sessuali (L'ape regina, 1963, La donna scimmia, 1964, Marcia nuziale, 1966, La grande abbuffata, 1969, I love you, 1986, La carne, 1991) fino alla denuncia dell'impossibilità di sopravvivenza dell'individuo, del suo suicidio dentro il sistema borghese: Dillinger è morto (1969), Il seme dell'uomo (1970), L'ultima donna (1976), Ciao maschio (1978). Una posizione più complessa e personale è quella sviluppata da Pier Paolo Pasolini (1922-1975): anch'egli irriducibile contestatore di una società abietta e ciecamente immolata sull'altare del consumismo. Alla società consumistica Pasolini oppone l'istintiva salute e la morale della libertà variamente presenti tanto nel mondo elementare del sottoproletariato romano quanto nel sostrato primitivo e barbarico, con la sua innocenza, delle società arcaiche terzomondiste. Dalle opere di Pasolini, saggista, narratore, sceneggiatore prima che regista, emerge un singolare (e non sempre comprensibile) cocktail di radici contadine, nostalgie religiose, impegno criticamente maxista, neoromantica aspirazione alla libertà di costume. I suoi film sono diseguali ma sempre stracolmi di intelligenza; Accattone (1961), opera d'esordio, riesce a coagulare dentro una squallida vicenda borgatara il senso di un'incombente ineluttabilità da tragedia greca. Con Il vangelo secondo Matteo (1964), probabilmente il suo capolavoro, il messaggio di un Cristo umano e degradato è affidato ad un sapiente riferimento figurativo ai maestri della pittura italiana tra Medio Evo e Rinascimento. Uccellacci e uccellini (1966) è un apologo profondamente ma godibilmente stilizzato nella presenza degli interpreti (un grande Totò e Ninetto Davoli) sulla crisi delle ideologie e del marxismo. Teorema (1968), Porcile (1969), Medea (1970), chiamano in causa il disfacimento borghese che, dopo la parentesi più possibilista della cosiddetta «Trilogia della vita», (Decameron, Racconti di Canterbury, Fiore delle Mille e una notte, tra il 1971 e il 1974), riceverà l'estremo suggello mortuario di Salò: le 120 giornate di Sodoma (1975), poco avanti la tragica fine del regista. Sensibilmente influenzato dal neorealismo è stato il movimento del cinema novo brasiliano affermatosi nei primi anni Sessanta come una presa di coscienza della miseria e dell'ingiustizia sociale che affliggevano il Paese. Collaborando a Barravento (1961) e dirigendo Vidas secas (1963), Nelson Pereira Dos Santos (n. 1929) può dirsene il fondatore, anche se il suo esponente più rappresentativo è Glauber Rocha (1938-1981) con una serie di film intrecciati di denuncia sociale, polemica ideologica e sentimento poetico: Il dio nero e il diavolo biondo (1964), Terra in trance (1967), Antonio das mortes (1969) Il leone a sette teste (1970), L'età della terra (1980).
La denuncia che sta a cuore a molti autori del nuovo cinema tedesco è quella del rapporto della Germania odierna con il proprio passato, coniugata con una inquieta riflessione critica sulla rimozione di esso; rimozione che può consentire il recupero della violenza, dell'intolleranza dell'arroganza del potere, all'interno delle soddisfatte strutture del benessere economico. è una forma di neonazismo sommerso che autorizza il rigetto ufficiale di istanze individuali e collettive nei confronti di problematiche imbarazzanti come l'emancipazione femminile, la libertà intellettuale, la convivenza con gli immigrati e così via. Il più scientifico nell'analizzare la fenomenologia neonazista collocandola entro il contesto dell'intera cultura germanica, miti e dottrine irrazionalistiche compresi, è Hans-Jürgen Syberberg (n. 1935), in origine documentarista televisivo, che ha sviluppato la propria ricerca attraverso film dedicati a Wagner, Ludwig di Baviera, Karl May e, finalmente, Hitler (1977), secondo un metodo che assembla materiali storici e contemporanei con rigoroso taglio figurativo. L'analisi storica di Syberberg ha ricevuto un compimento più creativo nella fluviale trasposizione cinematografica del Parsifal (1982). Decisamente impegnato sul versante della denuncia contemporanea è Alexander Kluge (n. 1932) che ha affrontato la questione femminile in La ragazza senza storia (1966) e Occupazioni occasionali di una schiava (1974), il problema dei rapporti tra artista e società in Artisti sotto la tenda del circo: perplessi (1968), la sopraffazione dell'individuo nei meccanismi del neocapitalismo industriale in Ferdinando il duro (1976). Insieme ad altri colleghi, Kluge ha partecipato alla realizzazione dell'inquietante film a episodi Germania d'autunno (1978) e ha ripreso il tema della coscienza nazionale in Die Patriotin (1979). Un'interessante testimonianza sull'alienazione degli odierni cineasti tedeschi, espressa con efficace originalità linguistica, sta nei film di Helma Sanders-Brahms (n. 1940): Sotto il selciato c'è la spiaggia (1975), Le nozze di Shirin (1976), Germania pallida madre (1980); mentre l'identica preoccupazione, calata in situazioni femminili di responsabilità anche politica, è riscontrabile nelle opere di Margarethe von Trotta (n. 1942): Il caso Katharina Blum (1975), Anni di piombo (1981), Lucida follia (1983), Rosa (1985). Più individuale e contrastato l'impegno critico di Reiner Werner Fassbinder (1946-1982), il più geniale, prolifico, nevrotico autore del nuovo cinema tedesco, impegno che affiora talvolta dall'ossessiva visione fassbinderiana dell'individuo vittima costante dell'altrui violenza. Tuttavia, il regista ha esplicitamente affrontato il tema sociale e politico del terrorismo in La terza generazione (1979); ed ha costretto un crudo spaccato di vita tedesca nel mosaico di film come Tutti gli altri si chiamano Alì (1974), Il diritto del più forte (1975), Il matrimonio di Maria Braun (1979) Lili Marleen (1981), Veronika Voss (1981). Il malessere di Volker Schlondorff (n. 1939) si riveste di accenti ampiamente metaforici nell'apologo surreale de Il tamburo di latta (1979), da un romanzo di Günther Grass, in cui si confermano le inclinazioni letterarie del regista che hanno prodotto, nel 1966, la versione per lo schermo de I turbamenti del giovane Törless e, nel 1984, quella di Un amore di Swann.
In un panorama come quello del cinema statunitense che, dagli anni Settanta, tende ad estremizzare il fenomeno della spettacolarizzazione, ricorrendo alle forzature dei film catastrofici (come Lo squalo o L'inferno di cristallo) e agli orrifici soggetti sovrannaturali (tipo L'esorcista), oppure si affida alla manipolazione tecnologica di vecchi generi inventando il western e il thriller spaziale (Guerre stellari e Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977, I predatori dell'arca perduta, 1981, Blade Runner, 1983), le prospettive della denuncia e delle protesta si identificano con le aspirazioni più vitali di una produzione pur costretta a fare i conti con la lievitazione dei costi e una pesante massificazione del gusto.
Prospettive, del resto, che trovano diretta ascendenza nello spirito di critica civile ben vivo negli anni antecedenti il maccarthismo. Ora, a rappresentare l'esasperato malessere di una società sono forme radicali di una miscela esplosiva in cui entrano fattori diversi: dalla cultura hippy alla violenta rivolta giovanile al deciso rifiuto dell'avventura in Vietnam. Esiste una certa continuità nel filone della critica civile se un regista come Richard Brooks (1912-1992) tratta in L'ultima minaccia (1952) il problema della libertà di stampa e in Il seme della violenza (1955) quello delle bande giovanili. La guerra di Corea non è ancora un ricordo lontano che giungono da Hollywood due potenti film pacifisti: Prima linea (1956) di Robert Aldrich e Orizzonti di gloria (1957) di Stanley Kubrick. Nel 1959, con La parola ai giurati, Sidney Lumet traccia un crudo ritratto della media borghesia yankee; e, nel 1960, un regista indipendente, John Cassavetes (1929-1986) compila in Ombre una poetica denuncia del problema nero. Nel 1964, Kubrick con il mordente grottesco del fantapolitico Il dottor Stranamore richiama l'attenzione sui pericoli distruttivi della politica nucleare dell'età di Eisenhower. Le contraddizioni e le violenze che si annidano sotto il modello sociale e civile statunitense vengono variamente affrontati in La caccia (1966) di Arthur Penn, M.A.S.H. (1970) di Robert Altman, Taking Off (1971) di Milos Forman, Come eravamo (1973) di Sidney Pollack, La conversazione (1974), di Francis Ford Coppola, Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) ancora di Forman, Tutti gli uomini del presidente (1976) di Alan J. Pakula, Harlan Country (1976) di Barbara Kopple, Quinto potere (1976) di Lumet, Oltre il giardino (1979) di Hal Ashby, Non si uccidono così anche i cavalli (1979), ancora di Pollack, Missing (1982), di Costa-Gavras.
Perfino il musical si responsabilizza in senso sociale e politico: da West Side Story (1961) a Cabaret (1972) a Hair (1979). Contemporaneamente, la rivolta giovanile svaria dalla contestazione pacifica dei ragazzi dei fiori (Alice's Restaurant, 1969, di Penn, Questa terra è la mia terra, 1976, di Ashby, oltre alla rilettura della leggenda di Bonny e Clyde, ad opera di Penn nel 1967) al rifiuto dell'integrazione sociale (Il laureato, 1967, di Mike Nichols, Cinque pezzi facili, 1970, di Bob Rafelson) fino alla rivolta globale. Questa, recuperando il mito di James Dean (1931-1956) e l'esperienza letteraria di Jack Kerouac e della Beat Generation, si esprime nell'anarchia esistenziale di Easy Riders (1969) di Dennis Hopper (e della sua versione al femminile: Non torno a casa stasera, 1969, di Coppola) esplodendo nella parossistica violenza delle storie on the road, «sulla strada»: I selvaggi (1966) di Corman, Punto zero (1971) di Monte Hellman, La rabbia giovane (1973), di Terrence Malick. Giunge poi fino all'esorcizzazione del Vietnam in Tornando a casa (1978) di Ashby, Il cacciatore (1978) di Cimino, Apocalypse Now (1979), di Coppola e a quella forma di autopunizione, forse freudiana, che è la ferocia dilagante in certi film di Sam Peckinpah (1926-1984): da Mucchio selvaggio (1963) a Cane di paglia (1971).

IL CINEMA GUARDA SE STESSO

Col tempo, anche sul piano organizzativo Hollywood è apparsa condannata al ridimensionamento del proprio mito. È New York che le si è sostituita in parte come luogo privilegiato del nuovo cinema USA. Per esempio, con la produzione underground che è, insieme, avanguardia e rifiuto borghese. Questo è stato il regno di Andy Warhol (1927-1987), esponente di punta della pop art, e della sua Factory. Per Wahrol il cinema deve essere casuale, non preparato: davanti alla macchina da presa immobile, gli attori improvvisano le varie azioni raccontando esclusivamente il proprio comportamento. Seguendo questo sistema, nel 1968, con Lonesome cow-boy, Warhol, che ha già realizzato diversi cortometraggi singolari, dirige una sorprendente satira del genere western. Alla Factory lavora anche Paul Morrissey (n. 1939) i cui film, gremiti di sesso e di materiali degradati, sono gli unici dell'underground a essere stati distribuiti nei circuiti normali: Flash (1969), Trash: i rifiuti di New York (1970), Calore (1979).
Il panorama della produzione cinematografica trova, ora, riferimenti in tutto il mondo. Dalla Francia di Robert Bresson, Bernard Tavernier e Agnes Varda, alla Svezia di Ingmar Bergman; dal Giappone di Nagisa Oshima al Portogallo di Manuel de Oliveira; dalla Grecia di Theo Anghelopoulos all'Australia di Bruce Beresford e Peter Weir, dall'Inghilterra di Ken Russell all'Italia dei fratelli Taviani, Ermanno Olmi e Bernardo Bertolucci. Si moltiplicano le coproduzioni tra cinematografie diverse. Diversi registi dei Paesi dell'Est hanno cercato, negli anni della repressione politica, un'accettabile libertà d'espressione sul mercato internazionale, come i polacchi Roman Polanski, Andrej Wajda, Krysztof Zanussi e l'ungherese Miklos Jancso. Nel frattempo, il lungo cammino del disgelo nell'ex Unione Sovietica era passato dal precedente crusceviano di Grigorij Čuchraj (n. 1927), autore, tra il 1957 e il 1961, del trittico Il quarantunesimo, Ballata di un soldato e Cieli puliti, alla riflessione lirico-filosofica di Andrej Tarkovskij (1932-1987): Andrej Rublev (1965), Lo specchio (1975), Stalker (1979), Nostalgia (1983), Sacrificio (1986).
Affiora dovunque una comune tendenza a fare del cinema che trae da se stesso la propria ispirazione. È sintomatico il caso di Sergio Leone (1929-1988), da cui discende il filone maccheronico del «western-spaghetti», ma le cui elaborazioni personali del genere possiedono un potenziale metaforico di ritualità e di nero sarcasmo (non per nulla Per un pugno di dollari occhieggia Kurosawa) e palesano una disinibita rilettura di moduli e stilemi. Dal 1964 al 1971 Leone dirige quattro western italiani di grosso successo: oltre il citato Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto e il cattivo, Giù la testa. Il suo reale interesse a fare «cinema sul cinema» è anche meglio riscontrabile nelle due celebrazioni di C'era una volta il west (1968) e C'era una volta in America (1983). La prospettiva metacinematografica discende alla lontana da certi postulati della nouvelle vague e Truffaut ne aveva dato un'anticipazione in Effetto notte. In USA si sono avute esperienze nell'ambito del film-gangster: Il lungo addio (1973) di Altman, Chinatown (1974) di Polanski, L'occhio privato (1977) di Robert Benton, fino al più significativo di tutti: Hammett (1982) di Wim Wenders (n. 1945), in cui l'inventore del poliziesco hard boiled (dall'inglese hard = «duro» e boiled «bollito» e quindi «bollito fino a diventare duro», in senso figurativo «duro», «aspro», «teso»). Dashiell Hammett, figura al centro di uno dei suoi tipici intrighi, in un gioco di sottile mimesi stilistica tra Wenders e il genere «nero» della Hollywood anni Trenta e Quaranta. Wim Wenders (n. 1945), del resto, è tra i nuovi autori tedeschi quello che ha risentito maggiormente della fascinazione hollywoodiana e lo ha mostrato in opere come L'amico americano (1977), ispirato ad un romanzo della specialista in suspense Patricia Highsmith, Lo stato delle cose (1982), altra riflessione sul cinema e sull'importanza della storia da raccontare in un film, Paris-Texas (1984), il suo più famoso, che racconta un intreccio di solitudini dentro una vicenda on the road. All'agonia del suo amico e maestro Nicholas Ray, Wenders ha dedicato la forte testimonianza di Lampi sull'acqua (1981). Sempre di Wenders ricordiamo Alice nelle città (1973), Il cielo sopra Berlino (1987), Fino alla fine del mondo (1991), Lisbon Story (1995), Buena Vista Social Club (1998). Un altro cineasta tedesco che si avvicina talvolta al «cinema sul cinema» è Werner Herzog (n. 1942), tuttavia privilegiando la rivisitazione del periodo espressionista (in L'enigma di Kaspar Hauser, 1975, e La ballata di Strozek, 1977). Accanto a realizzazioni di intenso sapore romantico (Aguirre, furore di Dio, 1973, Fitzcarraldo, 1982), Herzog ha dedicato a Murnau un significativo omaggio in Nosferatu, il principe della notte (1978).
La posizione che ricalca più da vicino quella della vague la ritroviamo, in USA, in Peter Bogdanovich (n. 1939): critico, saggista, autore di lunghe interviste ai registi preferiti e, personalmente, epigono del loro linguaggio con la risoluta fedeltà del cineamatore. Nel 1971, con L'ultimo spettacolo, Bogdanovich ha dato un robusto ritratto della provincia americana anni Cinquanta; successive incursioni nei canonici generi hollywoodiani (Ma papà ti manda sola?, 1972, Paper Moon, 1973, Vecchia America, 1976) hanno mostrato livelli diversi. Ma la sua genialità rivisitatrice si affida a tre eccitanti esercitazioni stilistiche: Targets (1967) agghiacciante horror film tipo anni Trenta, Saint Jack (1979), sensibile riscrittura del linguaggio fordiano, E tutti risero (1981), seducente contaminazione tra melo alla Casablanca e commedia sofisticata.
Ma dove il «cinema sul cinema» attinge le massime possibilità è nell'intelligenza dei due comici più popolari degli anni Settanta e Ottanta: Mel Brooks e Woody Allen, entrambi esponenti dell'umorismo intellettuale ebraico, tra Manhattan e il Village, che ha per referente la rivista New Yorker. Brooks (n. 1926) è un irriverente distruttore del cinema hollywoodiano che affronta nei suoi generi tradizionali (musical e western) con la metodica ferocia e insensatezza che fu dei fratelli Marx in Per favore non toccate le vecchiette (1967), Mezzogiorno e mezzo di fuoco (1974), o ancora in Balle spaziali (1987) e Robin Hood – Un uomo in calzamaglia (1993). Altre volte (Frankenstein junior, 1974, Essere o non essere, 1985, Dracula morto e contento, 1995) riscrive film del passato mutandone il senso. Il suo gioco più spericolato lo troviamo in L'ultima follia di Mel Brooks (1976), film girato in bianco e nero e muto, in cui, anche come interprete, Brooks recita il de profundis a Hollywood.
Per contro, Woody Allen (n. 1935) si riconosce seriamente nell'immagine cinematografica e ne accetta le banalità prendendosene gioco o mostrando come sia possibile riscattare gli stereotipi nell'intelligenza critica. Soggettista e interprete, Allen si volge alla demitizzazione di Bogart in Provaci ancora Sam (1972, regia di Herbert Ross). In proprio, cerca dapprima uno sbocco psicanalitico in Io e Annie (1977) e in Interiors (1978) con discusse reminiscenze bergmaniane. Il suo approccio alla struttura dei generi hollywoodiani fa segnare un primo capolavoro, Manhattan (1979), che è un musical condotto attraverso le canzoni di Gerswhin in un rapporto capovolto con la parte recitata. Da Zelig (1983) vertiginoso gioco di marchingegni tecnici, a Broadway Danny Rose (1984) alla Rosa purpurea del Cairo (1985) Allen traccia un proprio percorso attraverso il mondo sentimentale e strutturale chapliniano; giungendo al suo assoluto prosciugamento mediante l'intervento ironico del relativismo pirandelliano. Anche il teatro entra nella curiosità alleniana. E, da Hannah e le sorelle (1984), a September (1987), il regista compie una gustosa contaminazione facendo reagire Freud con il trattamento dei tormentati climi cechoviani. Ormai, la comicità del primo Allen, battutista e intrattenitore di cabaret, figura lontana parecchi anni luce, anche se di notevole interesse sono risultate le pellicole più recenti: Mariti e mogli (1992), Misterioso omicidio a Manhattan (1993), Pallottole su Broadway (1994), Tutti dicono I love You (1996), Accordi e disaccordi (1999).
Woody Allen in una scena di "Provaci ancora Sam"


UNA CINETECA DI 25 FILM

LA CORAZZATA POTEMKIN (Bronenosec Potëmkin)

Regia: Sergej Ejzenstejn. Interpreti: Aleksandr Antonov, Grigorij Aleksandrov, Vladimir Barskij. Urss, 1925.
Sarebbe dovuto essere un grandioso film celebrativo della rivoluzione russa del 1905, nella ricorrenza del ventennale, ma Ejzenstejn improvvisamente decise di ricordare la rivoluzione attraverso un unico episodio: quello dell'ammutinamento nel porto di Odessa dell'equipaggio del Potëmkin. Il film si articola sostanzialmente in cinque blocchi narrativi che vanno dal rifiuto del rancio avariato da parte dei marinai della corazzata alla fucilazione dei ribelli, dalla decisione dell'insurrezione con la partecipazione della popolazione di Odessa alla repressione armata sulla famosa scalinata, per concludersi con lo scontro della corazzata con il resto della squadra navale che si muta nell'invocazione collettiva «Fratelli, Fratelli!». Il film possiede un compatto afflato corale e può essere considerato un vasto affresco epico, condotto dall'autore con intensa energia figurativa e con commossa partecipazione ideale. In molti referendum internazionali è stata considerata l'opera più bella di tutta la storia del cinema.

LA GRANDE ILLUSIONE (La Grande Illusion)

Regia: Jean Renoir. Interpreti: Jean Gabin, Eric von Stroheim, Pierre Fresnais, Marcel Dalio, Dita Parlo, Julien Carette, Jean Dasté. Francia, 1937.
Potente appello per la pace e la fraternità tra gli uomini, La grande illusione è anche uno straordinario frutto del realismo psicologico caro ai migliori autori, scrittori e registi, francesi. Il discorso contro la guerra, infatti, non affiora dalla rappresentazione delle sue atrocità ma dalla testimonianza di quanto nelle sue vicende siano calpestati e umiliati i rapporti tra gli individui. Un gruppo di ufficiali francesi, durante il conflitto 1914-1918, viene internato in una fortezza comandata dall'aristocratico von Rauffenstein, rigido militare junker, che istituisce un privilegiato rapporto con uno dei suoi prigionieri, De Boieldieu, appartenente alla sua stessa casta, con comuni amicizie nell'alta società internazionale. Ma quando si avvede che l'ufficiale si adopera a coprire la fuga di due commilitoni, un operaio parigino e un banchiere ebreo, non esita a sparargli: deporrà sul suo cadavere un fiore di geranio. Renoir, prigioniero durante la prima guerra mondiale, ha riversato nel film molte esperienze personali. Eric von Stroheim, chiuso fino al collo in una guaina d'acciaio dà vita ad un ritratto di ufficiale prussiano divenuto proverbiale.

L'ETERNA ILLUSIONE (You Can't Take It With You)

Regia: Frank Capra. Interpreti: Lionel Barrymore, James Stewart, Jane Arthur, Edward Arnold, Misha Auer, Ann Miller, Donald Meek. USA, 1938.
Tolto da una commedia di successo di Kaufman e Hart, L'eterna illusione costituisce, insieme a Accadde una notte (1935), il più perfetto punto di fusione tra comicità sofisticata e favola rassicurante riscontrabile nel cinema di Frank Capra. L'ottimismo candido e inguaribilmente rooseveltiano del regista è qui presente con l'apologo del miliardario che, a contatto con la famiglia povera e stravagante della ragazza che il figlio vorrebbe sposare, si converte alla bontà e non soltanto dà il consenso alle nozze ma si dedica a rendere felici i suoi simili. Ma il controcanto della bizzarra comicità e della libertà fantastica riscatta ogni margine dolciastro della storia. Se è vero che la commedia sofisticata americana è il regno dei personaggi picchiatelli, nessun altro film ne mostra un campionario paragonabile a questo, con i parenti dell'eccentrico capofamiglia, impegnato a collezionare francobolli, immersi fino al collo nella manifestazioni più folli, protagonisti di una spensierata sarabanda quotidiana il cui simbolo è l'inopinata esplosione di una riserva di fuochi d'artificio.

OMBRE ROSSE (The Stagecoach)

Regia: John Ford. Interpreti: John Wayne, Claire Trevor, John Carradine, Thomas Mitchell, Andy Devine, George Bancroft, Tim Holt. USA, 1939.
è il film che consegna al genere western il suggello della classicità e uno dei più belli dell'intera storia del cinema. Lo sceneggiatore Dudley Nichols e il regista si sono ispirati alla lontana ad un racconto di Maupassant, Boule de suif, per la situazione narrativa generale e la complessa rappresentazione psicologica; ma il clima è quello tipico del racconto western statunitense e la vicenda è condotta da Ford con straordinaria maestria sul filo di una costante tensione drammatica. La storia è semplice; narra il viaggio attraverso il Nuovo Messico infestato da bande di indiani Apaches di un gruppetto di persone costrette alla convivenza nello spazio angusto di una diligenza: una prostituta, un fuorilegge, un giocatore del Sud, un commerciante in liquori, un medico ubriacone, un banchiere ladro, la moglie di un ufficiale in stato avanzato di gravidanza. Prima di arrivare a Lordsburg, meta del viaggio, la signora partorisce in condizioni d'emergenza, i Pellirosse attaccano la diligenza e i viaggiatori vengono salvati dalla cavalleria. Tra Ringo, il fuorilegge, e la prostituta nasce un idillio. Lo sceriffo consentirà a Ringo di compiere la sua vendetta e di partire con la ragazza per rifarsi una vita. Lo stile narrativo di Ford è, insieme, intenso e lineare. Non esiste in tutto il film un metro di pellicola superfluo.

VIA COL VENTO (Gone With the Wind)

Regia: Victor Fleming. Interpreti: Clark Gable, Vivien Leigh, Olivia De Havilland, Leslie Howard, Thomas Mitchell, Hattie McDaniel. USA, 1939.
Prima di Fleming, imposto dall'amico Clark Gable, si erano avvicendati sul set anche George Cukor e Sam Wood; ma nessuno dei due andava bene a David O'Selznick, tirannico produttore e vero autore del film. Via col vento costituisce il vertice delle possibilità produttive e spettacolari di Hollywood. Tolto da un best seller, sceneggiato da dozzine di scrittori (tra cui Scott Fitzgerald), sorretto da un'insolita grandiosità di mezzi, interpretato da attori perfettamente rispondenti al loro ruolo (per il personaggio di Rossella O'Hara, Vivien Leigh fu scelta dopo una colossale selezione per tutti gli Usa e trovò qui il proprio lancio divistico), Via col vento è il film che ha fatto registrare il più grande successo internazionale e, ancor oggi, fatte le debite proporzioni monetarie, quello che ha incassato di più nel mondo. Con lo sfondo storico e ambientale del Sud e della guerra di secessione, la vicenda fondamentalmente melodrammatica, i caratteri ben delineati dei personaggi, l'irreprensibile resa tecnica delle scene d'insieme, questo film potrebbe anche venir considerato il capostipite delle vicende seriali, tipo Dallas.

FURORE (The Grapes of Wrath)

Regia: John Ford Interpreti: Henry Fonda, John Carradine, Jane Darwell, Doris Bowden, Ward Bond. USA, 1940.
Nonostante questa volta Ford non si sia servito del fedele Dudley Nichols e abbia fatto ricorso a Nunnally Johnson per sceneggiare l'omonimo romanzo di John Steinbeck, Furore è un film dall'impianto narrativo molto fordiano, con un gruppetto di personaggi che si spostano per il paese attraversando terre piene di insidie e di difficoltà. Su una vecchia automobile, dove hanno caricato stracci e masserizie, i componenti la famiglia Joad viaggiano dall'Oklahoma alla California in cerca di lavoro. Sono contadini messi in ginocchio dalla Grande Depressione e dalla rapacità bancaria che li ha privati della terra per recuperare il denaro prestato, come era accaduto a molte altre famiglie rurali in quegli anni. Tra una bidonville e una fattoria, sopravvivono con lavori di bracciantato giornaliero, passano attraverso uno sciopero e le incursioni dei banditi, perdono un figlio in uno scontro con i poliziotti. Il film è un potente affresco umano e sociale, impreziosito dalla fotografia di Gregg Toland che qui, come in Quarto potere di Welles e Piccole volpi di Wyler, impiega obiettivi capaci di rendere insolite profondità di campo visivo.

QUARTO POTERE (Citizen Kane)

Regia: Orson Welles; Interpreti: Orson Welles, Joseph Cotten, Agnes Moorehead, Ruth Warrick, Dorothy Comingore, Everett Sloane, Paul Stewart, Ray Collins. USA, 1941.
Nonostante avesse solo 25 anni, Welles esordì ad Hollywood con alle spalle un grosso prestigio derivatogli dalla direzione del Mercury Theatre e dalla trasmissione radiofonica con cui aveva terrorizzato il Paese fingendo un'invasione di marziani. Ebbe perciò a disposizione mezzi eccezionali, e Quarto potere è un film eccezionale per intelligenza cinematografica e senso drammatico. è il ritratto di un magnate self made man, secondo l'ideale statunitense. Il riferimento reale è per William Randolph Hearst, potente capo di una catena di giornali e stazioni radio che copriva tutta l'America. Hearst cercò a lungo di evitare la circolazione del film che è anche un amaro ritratto di solitudine umana e una forte critica al cosiddetto «sogno americano». La vita del protagonista vi è narrata a ritroso, dopo la sua morte, in un arduo gioco d'incastro di continui flash back. Hearst, vincitore nato, vi è mostrato nella senile regressione all'infanzia, ormai privo di memoria e di affetti, ridotto alla sola consolazione dei suoi giocattoli di tanti anni avanti. Con l'aiuto dell'operatore Gregg Toland e dei montatori Robert Wise e Mark Robson (due futuri registi di spicco), Welles realizza un linguaggio filmico sorprendentemente nuovo ed intenso.

CASABLANCA (Casablanca)

Regia: Michael Curtiz. Interpreti: Humphrey Bogart, Ingrid Bergman, Claude Rains, Peter Lorre, Sidney Greenstreet, Paul Henreid, Conrad Veidt. USA, 1942.
Nel film c'è l'individuazione quasi miracolosa di tutti gli stereotipi di successo che hanno costruito gli splendori di Hollywood la sua potenza di «fabbrica dei sogni», nell'approccio e nel coinvolgimento dell'immaginario collettivo delle platee di tutto il mondo. è il prodotto di un regista, Michael Curtiz di sicura esperienza ma anche di un sistema produttivo dal fiuto quasi infallibile. Amore, avventura, patriottismo, romanticismo ambiguo dell'eroe, gusto dell'ambiente misterioso si riversano in una vicenda che vede nella città libera di Casablanca tradizionale covo di spioni e avventurieri internazionali, durante l'ultimo conflitto, il padrone di un night club sacrificare il sentimento personale e aiutare un'agente alleata e il compagno a sfuggire alla Gestapo, con la maliziosa collaborazione del capo della gendarmeria francese. Il cast degli interpreti agisce ad un livello invidiabile di efficacia; non ultimo motivo di successo, la canzone interpretata nel night dal pianista nero, Sam.

AMANTI PERDUTI (Les Enfant du Paradis)

Regia: Marcel Carné. Interpreti: Jean Louis Barrault, Arletty, Pierre Brasseur, Maria Casarès, Marcel Herrand, Louis Salou, Pierre Renoir. Francia, 1943/1945.
L'abituale, stretta collaborazione tra il regista Marcel Carné e lo sceneggiatore Jacques Prévert vede, questa volta, in maggior evidenza il secondo. Prévert ha, infatti, riversato nel film tutto il romanticismo popolare parigino ottocentesco (con espliciti riferimenti a Hugo e Balzac) mescolandolo a modernissime riflessioni sulla vita e l'arte, i rapporti tra gli attori e gli uomini, l'illusione e la realtà. Diviso in due parti, il film racconta la storia di un grande amore impedito dal destino, ambientato tra il 1840 e il 1847 nella Parigi dello spettacolo infimo e aulico: Deburau è il mimo da fiera che creò la figura del Pierrot; Frédérick Lemaitre è l'attore famoso per il quale Dumas padre scrisse Kean. La donna di cui Debureau è perdutamente innamorato, Garance, resterà per entrambi un miraggio, anche se per lei Lemaitre arriverà alle soglie del delitto. Il clima di disperazione e di sconfitta è tipico della coppia Carné-Prévert, ma il regista mette di suo nel film una superba e rarefatta figuratività che ha la meglio sulla raggelata tragicità della vicenda. Memorabili gli interventi mimici di Barrault.

PAISÁ

Regia: Roberto Rossellini. Interpreti: non professionisti. Italia, 1946.
Dopo Roma città aperta, Rossellini trova in Paisà la condizione più congeniale per esprimere la straordinaria capacità realistica e lirica del suo cinema. Realizzato senza sceneggiatura, con le situazioni e i dialoghi che si evolvono a seconda dei luoghi e delle popolazioni coinvolte, Paisà racconta in sei capitoli la risalita della penisola da parte dell'esercito alleato tra il 1943 e il 1945. Si incomincia in Sicilia con lo sbarco e, attraverso le tappe di Napoli, Roma, Firenze e di un convento della Romagna, si arriva all'episodio in cui i tedeschi sterminano una formazione di partigiani e di paracadutisti tra gli acquitrini del delta del Po. Qui, le inquadrature hanno uno straziante nitore tragico cui il paesaggio desolato partecipa intensamente. Nell'episodio fiorentino, invece, sorretto da un ritmo incalzante, sono gli uomini a figurare al centro della insensata avventura della guerra. Gli altri capitoli sono lievemente al di sotto della straordinaria investitura poetica del racconto; ma sviluppano ugualmente quella che è la posizione preminente di Rossellini, il suo sommesso risentimento in difesa dell'uomo.

MONSIEUR VERDOUX (Monsieur Verdoux)

Regia: Charles Chaplin. Interpreti: Charles Chaplin, Mady Corell, Martha Raye, Margaret Hoffman, Isobel Helsom, Marilyn Nash. USA, 1947.
Fu Orson Welles a suggerire a Chaplin di realizzare questo film lontanamente ispirato al caso Landru. Il cassiere Verdoux, funzionario e sposo esemplare, assassina dodici donne in diverse città e si impadronisce dei loro averi. Verrà tradito da una giovane vagabonda che ha risparmiato. Processato, è condannato alla ghigliottina. L'azione è ambientata in Francia, ma il discorso è universale («Un delitto solo e siete un bandito. Alcuni milioni e siete un eroe. Il numero santifica», dice Verdoux durante il processo) e denuncia la perdita dei valori di un individuo cresciuto tra le macerie della catastrofe e reso cinico fino al delitto sistematico dal proprio stesso smarrimento. La polemica contingente che serpeggia nel film è quella contro l'atomica, ma Chaplin conserva nel racconto un'impassibilità agghiacciante. Come farà nei film successivi, Chaplin compare in una caratterizzazione reale e non nei panni del vagabondo Charlot: il suo messaggio vuole andare diritto al cuore della realtà storica di un'epoca in cui l'uomo della strada può facilmente adeguarsi al grande massacro senza perdere di umanità. Avviandosi alla ghigliottina con il vecchio passo charlottiano Chaplin-Verdoux indica allo spettatore come il suo mondo poetico abbia toccato il punto di non ritorno.

RASHOMON (Rashomon)

Regia: Akira Kurosawa. Interpreti: Toshiro Mifune, Machiko Kyo, Masayuki Mori, Takashi Shimura. Giappone, 1950.
Davanti alle porte del tempio del dio Rasho, un tribunale conduce l'inchiesta sulla morte di un samurai, ma le versioni non coincidono. Un bandito afferma di avere ucciso l'uomo e violentato la moglie; questa dice di essere lei l'assassina del marito; l'anima del defunto sostiene di essersi suicidato. Un legnaiolo, infine, smentisce tutti gli altri. L'evidente ricorso al relativismo pirandelliano circa la verità non è un'operazione intellettualistica da parte del regista. Kurosawa ha inteso, in questo modo, rappresentare lo smarrimento delle coscienze nel Giappone del dopoguerra ed ha portato avanti un'azione di critica alla cultura e alla tradizione dei samurai. Nel racconto del testimone, il morto riceve una patente investitura di doppiezza e di viltà e l'ambientazione è cupa e opprimente, chiusa in una foresta battuta incessantemente dalla pioggia. In questo film, che rivelò in Occidente il livello d'arte della cinematografia nipponica, Kurosawa si mostra abile e raffinato nella capacità di legare in un unico stile elementi esotici e cultura europea.

SENSO

Regia: Luchino Visconti. Interpreti: Alida Valli, Farley Granger, Massimo Girotti, Rina Morelli, Christian Marquand. Italia, 1953.
Per la sontuosità figurativa, la fedeltà storica, la stretta aderenza del dramma psicologico con il quadro politico e patriottico risorgimentale, Senso è probabilmente il film più bello di Luchino Visconti. Vi si aggiungano le magistrali immagini del direttore della fotografia, Aldo, e l'intensa tragicità dell'interpretazione di Alida Valli come contessa Serpieri e il giudizio non può che venir ribadito. Visconti si ispira ad un racconto dello scapigliato milanese Camillo Boito in cui è narrata la passione di una gentildonna maritata per un ufficiale austriaco, passione che, passando attraverso l'abiezione dell'uomo, si concluderà tragicamente con la sua fucilazione per diserzione. L'epoca è quella della Terza guerra d'indipendenza, in Veneto. Dalla propria esperienza culturale, Visconti ha saputo trarre la lucida visione critica che contrappone la decadenza nobile alla generosità del patriottismo borghese. Inoltre adombra la non partecipazione delle masse ai moti risorgimentali in alcune sequenze tagliate dalla censura dell'epoca. Si può dire che il segno melodrammatico riscontrabile nei film viscontiani figura qui perfettamente assorbito nell'incandescente temperie di tragicità.

LA DOLCE VITA

Regia: Federico Fellini. Interpreti: Marcello Mastroianni, Anita Eckberg, Anouk Aimée, Alain Cuny, Magali Noel, Yvonne Furneaux, Annibale Ninchi, Lex Barker. Italia, 1960.
Perfetta testimonianza dell'alessandrinismo narrativo di Federico Fellini, della sua vocazione a costruire romanzi cinematografici che non valgono per l'architettura generale ma per la vivacità, l'ironia, il graffio delle situazioni singole e dei particolari. Non per nulla, il regista è stato attratto anche dal Satyricon, il più grande romanzo «alessandrino» dell'antichità. Dall'incalzante succedersi e intersecarsi degli episodi, che ruotano intorno alle svogliate esperienze di un giornalista, angosciato e pigro, succube del caos quotidiano, dei comportamenti e della confusione dei sentimenti, emerge un quadro indimenticabile della vita romana tra jet set e popolo, mondo intellettuale e trasgressione snobistica. Il titolo del film è diventato proverbiale, come proverbiale è rimasto il cognome, Paparazzo, affibbiato da Fellini ad uno dei fotoreporter scandalistici che fa muovere nella via Veneto by night. Nonostante un qualche moralismo esteriore, il film è un pungente referto di costume della società italiana anni Sessanta.

WEST SIDE STORY (West Side Story)

Regia: Robert Wise, Jerome Robbins. Interpreti: Nathalie Wood, Russ Tamblyn, George Chakiris, Richard Beymer, Tony Mordente. USA, 1961.
Con West Side Story il musical cinematografico statunitense mette definitivamente da parte la tradizione e si avvia con decisione verso un discorso più arioso e realistico. Nel trasferire sullo schermo l'omonimo successo teatrale, Wise ha ambientato l'azione en plain air girando anche i balletti in esterni tra la 68 a e la 1108 strada di New York. La storia è quella di Romeo e Giulietta trasportata di peso nel quartiere popolare in cui si affrontano bande giovanili di portoricani e di yankee. L'amore di Tony per la portoricana Maria è complicato dal fatto che il ragazzo ha ucciso il fratello di lei per vendicare la morte del proprio capo. La spirale di violenza provocherà nuove vittime. Tony-Romeo muore in un combattimento per la strada dopo aver creduto morta Maria-Giulietta.

BLOW UP (The Blow Up)

Regia: Michelangelo Antonioni. Interpreti: David Hemmings, Peter Bowles Vanessa Redgrave, Sarah Miles. Gran Bretagna, 1967.
In inglese, blow up significa «ingrandimento». è appunto dall'ingrandimento di una fotografia scattata in un parco pubblico di Londra che un fotografo di moda, insospettito dai tentativi della donna che vi compare per farsi dare il negativo, scopre come la scena ritratta sia quella di un omicidio. La struttura narrativa scelta da Antonioni è quella del thriller ma la tensione del racconto scandisce un rapporto più decisivo: quello tra l'individuo e la conoscibilità delle cose che ci circondano. Da questo punto di vista, pare che qui Antonioni abbia fatto registrare una più larga possibilità di rapporto in confronto all'alienazione assoluta, all'iniquo silenzio delle cose di sue opere precedenti, come La notte e L'eclissi. Blow Up costituisce anche una lucida testimonianza dell'indeterminatezza con cui i giovani intellettuali londinesi vivono la loro rivoluzione del costume alle soglie del Sessantotto. Con l'impiego di un eastmancolor ricco di tenui cromatismi e chiaroscuri, il regista istituisce una sorta di visività metafisica e floreale insieme, che è un poco la vera ragione del fascino del film.

EFFETTO NOTTE (La Nuit Américaine)

Regia: François Truffaut. Interpreti: Jacqueline Bisset, Jean Pierre Aumont Jean Pierre Léaud, Valentina Cortese, François Truffaut. Francia, 1973.
è forse la prova più esauriente di quali risultati possa raggiungere un cinema che racconta se stesso. Con grazia maliziosa e sorridente Truffaut gira le peripezie di un regista alle prese con la realizzazione di un ipotetico film brillante, dal titolo inequivocabile: Vi presento Pamela. Tutti i problemi, che quotidianamente si affollano intorno ad un set cinematografico, passano sullo schermo in un gioco vivace tra invenzione e testimonianza personale: dalle difficoltà con i finanziatori alle complicazioni sentimentali sorte dentro la troupe, alle crisi professionali di alcuni interpreti e così via. Lo stile di Truffaut è vivacissimo e, insieme, tenero e graffiante. La sua metafora sul cinema è intrisa di autobiografia come nell'episodio in cui il regista vede se stesso, ragazzino, rubare i manifesti di Quarto potere.

2001: ODISSEA NELLO SPAZIO (2001: A Space Odissey)

Regia: Stanley Kubrick. Interpreti: Keir Dullea, William Sylvester, Gary Lockwood, Daniel Richter. USA, 1968.
Insieme a Barry Lindon e Arancia Meccanica, compone la trilogia in cui meglio si manifesta la sensibilità sontuosa e ironica di Kubrick e ne costituisce il titolo più importante. Si tratta di una monumentale metafora della vicenda umana dalla creazione al primo volo spaziale su Giove. Da una base lunare, il più avanzato punto di osservazione dell'Universo, parte la spedizione scientifica su Giove per scoprire la reale natura di un misterioso monolito che incombe sulla Terra fino dall'era delle scimmie. La spedizione è guidata da un cervello elettronico che, durante il viaggio, paleserà di possedere tutti i vizi umani. Lo stile di Kubrick è impassibile come si trattasse di un documentario scientifico, ma la sua ironia si manifesta attraverso l'intrusione di sconcertanti banalità quotidiane dentro il meraviglioso avveneristico. La visione del regista è pessimistica e ammonitrice: nessun progresso della scienza cancellerà per l'uomo il problema morale della vita. Kubrick ha sparso a piene mani nel racconto trovate di grande classe. è rimasta proverbiale la sequenza in cui le astronavi viaggiano per lo spazio danzando al ritmo del valzer di Strauss Il bel Danubio blu.

IL PADRINO (The Godfather)

Regia: Francis Ford Coppola. Interpreti: Marlon Brando, Al Pacino, Diane Keaton, James Caan, Robert Duvall, John Cazale, Talia Shire. USA, 1972
Tratto da un romanzo di Mario Puzo, cosceneggiatore con il regista, il film narra la storia di Mike Corleone, figlio di un mafioso, il quale, pur essendo estraneo all'attività criminale della famiglia, dopo l'attentato al padre don Vito, viene coinvolto nella vita del clan insieme ai fratelli Sonny e Fredo. Divenuto l'erede del Padrino, è proprio lui a organizzare il "regolamento di conti" e a studiare una nuova strategia negli affari del clan mafioso. Pellicola di grande successo entrata nella storia del cinema, al film furono assegnati tre Oscar: miglior film, migliore sceneggiatura, migliore attore protagonista (M. Brando). Fu seguito da Il Padrino – Parte II (1974) e da Il Padrino – Parte III (1990).

PARIS, TEXAS (Paris, Texas)

Regia: Wim Wenders. Interpreti: Harry Dean Stanton, Hunter Carson, Nastassia Kinski, Dean Stockwell. USA, 1984.
Probabilmente, il racconto cinematografico di Paris, Texas è meno rigoroso e asciutto di quello di Lo stato delle cose che lo precede di un anno e fonde con maggiore pregnanza la riflessione di un cineasta europeo affascinato dal cinema americano con la ricreazione diretta del linguaggio di questo cinema. Ma Paris, Texas ha il pregio di funzionare a livello esemplare elevando un ben tipico materiale filmico al rango celebrativo del mito. Esercita, cioè, sullo spettatore di trent'anni dopo la stessa funzione di un Casablanca. Wenders mescola ingredienti sicuri: la solitudine del protagonista, il rapporto timidamente difficile tra adulto e bambino, il viaggio attraverso i grandi spazi e le città che punteggiano i nastri delle autostrade, l'ambiguità del ruolo femminile e il suo ben dosato mix di innocenza ed erotismo, di tenerezza ed estraneità. Il tutto con l'occhio disponibile di un regista che si ritrova finalmente calato nel confronto creativo con il proprio Eldorado.

LA ROSA PURPUREA DEL CAIRO (The Purple Rose of Cairo)

Regia: Woody Allen. Interpreti: Mia Farrow, Jeff Daniels, Danny Aiello, Van Johnson. USA, 1985.
Con straordinaria finezza, Allen riesce in questo film ad amalgamare livelli diversi di racconto. Nella storia di Cecilia, che dimentica il grigiore e le quotidiane contrarietà familiari perdendosi nel sogno ad occhi aperti della visione cinematografica, troviamo una favola perfettamente scandita, un atto d'amore per il film hollywoodiano di consumo degli anni Trenta, la riflessione sulla funzione del cinema come antidoto alla Grande Depressione nella società americana, l'aggiustamento dell'espressività di Allen nei confronti dello stile di Chaplin e, infine, il suo gusto risentito di imbastire storie attraversate da provocazioni intellettuali. Quest'ultimo motivo è affidato ad una sorta di adattamento del pirandellismo alla vicenda. I personaggi di un film di esotiche avventure escono dallo schermo e vanno in cerca degli spettatori, specialmente il protagonista, aitante e col casco coloniale, che è attratto dalla graziosa Cecilia. Ma la sua avventura nella realtà non può durare e Cecilia si ritrova alle prese con i problemi di tutti i giorni. Non le resterà che dimenticarsi nelle danze di Ginger Rogers e Fred Astaire in Cappello a cilindro.

SCHINDLER'S LIST (Schindler's List)

Regia: Steven Spielberg. Interpreti: Liam Neeson, Ben Kingsley, Ralph Fiennes. USA, 1993.
Tratto dal romanzo omonimo di Thomas Keneally e basato su una vicenda realmente accaduta, il film narra la storia di Oskar Schindler, industriale tedesco che decide di fare fortuna nella Polonia invasa dai Tedeschi, impiegando come mano d'opera a basso costo nella propria fabbrica di stoviglie centinaia di Ebrei altrimenti destinati ai campi di concentramento. Riuscirà a salvarne 1.100, modificando al contempo la propria attitudine, inizialmente indifferente e alla fine caratterizzata da una piena presa di coscienza del valore della vita umana contro la follia nazista. Il film ottenne sette premi Oscar: film, regia, fotografia, musica, montaggio, sceneggiatura non originale e scenografia.

TRE COLORI - FILM BLU (Trois couleurs: Bleu)

Regia: Krzysztof Kieslowski. Interpreti: Juliette Binoche, Benoît Régent, Florence Pernel. FR.-SVIZ.-POL., 1993.
Julie (Binoche) perde in un incidente automobilistico il marito, compositore, e la figlia. Distrutta dal dolore si chiude in un profondo isolamento, garantito dal suo trasferimento in un appartamento di Parigi e dall'uso di uno pseudonimo. L'incontro con una vicina di casa (Pernel) e la vicinanza dell'assistente del marito (Régent), da sempre innamorato di lei, la obbligano a riaprirsi alla realtà, della quale scoprirà vicende e segreti (il tradimento del marito e la gravidanza dell'amante del marito) che la sproneranno a ricominciare a vivere terminando il concerto lasciato incompiuto dal marito. Il film si conclude con le immagini dell'ecografia del nuovo figlio di Julie. Primo film di una trilogia (con Tre colori - Film Bianco e Tre colori - Film Rosso) dedicata dal regista ai colori della bandiera e ai tre concetti che furono motto della Rivoluzione francese prima, della Repubblica francese poi (libertà, uguaglianza, fraternità), Film Blu è legato al tema della libertà, intesa come totale possibilità di amare senza vincoli posti dal passato (la cui veridicità può essere a tratti negata) o da se stessi. La pellicola, capace di un coinvolgimento emotivo progressivo e intenso, venne premiata a Venezia con il Leone d'oro e con la coppa Volpi alla protagonista femminile.

LA VITA È BELLA

Regia: Roberto Benigni. Interpreti: Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, Giorgio Cantarini, Giustino Durano, Sergio Bustric, Horst Buchholz. Italia, 1997.
Toscana, anni Trenta. Guido Orefice (Benigni) è un giovane ebreo innamoratosi della bella maestra Dora (Braschi): i due, dopo un breve corteggiamento, si sposano e hanno un figlio, Giosuè (Cantarini). Il tempo passa e ha inizio la persecuzione contro gli Ebrei: Guido e Giosuè vengono deportati in un campo di concentramento dove, sebbene non ebrea, si fa rinchiudere anche Dora. Una volta nel campo di prigionia Guido riesce a convincere Giosuè che tutti i presenti sono solo i protagonisti di un gioco a premi il cui premio finale è un grosso carro armato. Film dolce, struggente, equilibrato nelle sue varie componenti, riesce a far ridere e piangere con la stessa sincerità e con lo stesso slancio. Un inno all'innocenza (e alla sua preservazione), all'amore (materno, paterno, filiale, coniugale), alla solidarietà, e un atto d'accusa nei confronti dell'orrore e della stupidità della guerra e dell'ideologia che ne è la base. Scritto da Benigni con Vincenzo Cerami, il film guadagnò cinque Nastri d'argento, sette nomination agli Oscar e tre statuette (miglior film straniero, miglior attore, migliore colonna sonora).

TITANIC (Titanic)

Regia: James Cameron. Interpreti: Leonardo Di Caprio, Kate Winslet, Billy Zane, Kathy Bates. USA, 1997.
Viaggio inaugurale del Titanic, transatlantico destinato a entrare nel mito per la sua breve vita: Rose (Winslet), una giovane aristocratica in viaggio per gli Stati Uniti per sposare il fidanzato (Zane) voluto dalla madre, e Jack (Di Caprio), un artista appartenente a una classe sociale meno elevata che si guadagna da vivere tracciando ritratti, si innamorano e vivono la loro breve ma intensa storia d'amore nello spazio di una traversata terminata con il naufragio e con la morte del giovane. Ed è proprio Rose, ormai anziana, a ricordare e a raccontare a chi sta cercando tra i resti del Titanic il prezioso diamante blu a lei appartenuto, la vera, sconosciuta storia del viaggio e del naufragio del transatlantico. Grandissima storia d'amore inserita in un contesto spettacolare maestoso (il Titanic ricostruito è di dimensioni di poco inferiori all'originale), il film decretò il successo dei protagonisti e riuscì ad aggiudicarsi 11 premi Oscar, tra i quali ricordiamo quelli per miglior film, migliore regia, migliori effetti speciali, migliore colonna sonora, migliore canzone, migliore fotografia, miglior suono e migliori costumi.
Titanic (1997): la locandina